Pace e guerra nella testa

Pubblicato il 19-11-2022

di Sandro Calvani

Le visioni dominanti nel mondo sulla relazione pace-guerra sono due, che io chiamo quella della conservazione e quella della conversazione. Nel suo splendido e chiarissimo libro Why War? (Perché la guerra?), il prof. Keith L. Nelson dedica tutto il primo capitolo al paradigma dell’ideologia e teoria conservatrice sulle cause della guerra.

Si tratta di interpretazioni – purtroppo sbagliate – che ho trovato dominanti quasi ovunque nel mondo, dalle università americane a quelle cinesi, dal parlamento della Colombia a quello della Thailandia, dal Sudafrica a Bruxelles. In estrema sintesi di 35 pagine di quel capitolo, Nelson dimostra che la conservazione, cioè la voglia oscenamente diffusa di mantenere tutto com’era o come sta (o come qualcuno pensa che stia), dai valori ai costumi, dallo status quo della disuguaglianza economica a quella di genere, dai consumi ai riti e credenze religiose, crea inevitabilmente divisioni profonde con tutto il resto; cioè con tutto quello che cambia, che si evolve. La divisione tra l’ordine conosciuto e il nuovo che viene (malamente interpretato come disordine) obbliga a separare – e presto o tardi a sparare – contro chi rappresenta qualunque novità.

Il paradigma contrario alla conservazione delle differenze è quello della conversazione: è la visione che ha fermato la guerra e costruito la pace a livello nazionale e internazionale. Pensiamo per esempio al Tirolo, all’Irlanda, alla Catalogna, al Mozambico, al Sudafrica, al Kenya, a Timor Leste, tutti casi dove il conflitto non è scomparso, ma l’odio e la violenza sono stati minimizzati. Attenzione: la conversazione è molto di più del dialogo, che invece si può fare anche a distanza. La conversazione è un dialogo a vita, che si fa vivendo insieme.
In questa visione si riconosce che il conflitto è il motore principale della creatività e dell’innovazione applicate alla pace. Si sperimenta così che le persone non imparano (= immettono parità) la pace guardando le differenze davanti a uno specchio, le persone imparano la pace incontrando amichevolmente la differenza.

Infatti, se gli avversari di un conflitto si trovano a vivere nella stessa terra, o in due terre confinanti dove le frontiere sono abbassate per ragioni storiche o culturali (forti scambi economici, stessa lingua, famiglie binazionali...), essi sono di fatto già protagonisti di una qualche forma di con-versazione. L’etimologia latina della parola conversazione ci ricorda che essa viene proprio dal fatto del vivere insieme: con-versare – girare insieme dall’altro verso – è un comportamento e una forma di vita e di frequentazione collaborativa, resa necessaria dallo stare vicini, dal vivere insieme, caratterizzata dal prendere dimestichezza delle diversità, dal rendere la diversità una consuetudine apprezzata. La visione ed esperienza del conversare include il mettere insieme due o più versi divergenti e vedere continuamente anche l’altro verso ed essere disposti a una inversione di marcia frequente.
Il suo contrario etimologico è l’atto di avversare, l’opposizione tra due versi, contrapporre due modi di vedere un fatto o una vertenza.

Tutte quelle comunità locali e nazionali che hanno accettato un po’ di integrazione fra ideologie diverse dell’occidente e dell’oriente sono più felici. Esiste prova scientifica di tutto ciò. Quelle comunità che sono più radicate e focalizzate esclusivamente sul loro passato e sulle loro tradizioni sono quelle che hanno più problemi al proprio interno, denatalità, suicidio, depressione, odio, violenza che spesso si proiettano all’esterno.
Altre comunità di Nazioni le divisioni un po’ selvagge ce le hanno proprio in testa, non riescono né provano a liberarsene. L’Europa, per esempio, all’inizio del Novecento aveva cominciato ad abbassare le frontiere abolendo del tutto i passaporti. Oltre 120 anni dopo, la maggioranza degli europei pensa che il passaporto dica molto o tutto di una persona, soprattutto se si tratta di una persona non europea, tanto che un passaporto diverso sia la prova di una differenza così grande da impedire l’ingresso di una persona in una nazione e giustifichi pertanto una separazione completa e irreparabile.

Questi flash sulle mie osservazioni di diverse visioni dell’origine della relazione guerra-pace sono indicatori dell’opportunità di un cambio di paradigma urgente: trasferire la ricerca sulla pace dal suo ambito tradizionale ed esclusivo di relazioni internazionali, della politica internazionale e del diritto internazionale umanitario a quello delle neuroscienze.
Oggi, appena vediamo immagini di guerra, prove evidenti della disumanità della guerra, ne percepiamo subito l’odio intrinseco, la negazione dell’amore e ci prendiamo a cuore quelle situazioni che fanno soffrire anche noi. In pratica abbiamo a cuore la pace, ma non abbiamo a mente la guerra. Cioè non abbiamo decostruito l’odio nella nostra testa.

Il genere umano è cresciuto lasciando crescere con noncuranza le sue inevitabili differenze senza accorgersi che sono tutte necessarie, che siamo tutti parte di un alveare di otto miliardi di persone che sono co-necessarie per la loro esistenza. Questa incuria delle diversità non è solo una questione di cuore, non è una questione di spirito, è soprattutto una questione di mente. E le menti vanno studiate, andrebbero conosciute molto meglio, soprattutto nelle loro diffusissime devianze, che vanno riconosciute e curate con trasparenza, come si fa con il diabete o con il colesterolo.

Io sono a favore del diritto alla conoscenza di se stessi, che non esiste ancora nella dichiarazione dei diritti umani, cioè che ogni persona ha diritto di sapere che problema ha la sua mente. Per esempio, se io fossi un po’ asperger o un po' autistico o un po' “tossicamente” maschio Alfa, se avessi una visione sbagliata sulle donne, dovrei saperlo, dovrei avere il diritto SI IMPARA all’autoconoscenza e quindi anche il diritto di modificare, cioè migliorare la salute della mia mente, come faccio con la salute di altri organi del mio corpo. Ovviamente questo comporta anche il superamento di tutti i pregiudizi e i tabù sulla salute mentale personale e collettiva, aumentandone molto la trasparenza.

Da questa riflessione potrebbe scaturire un suggerimento a NP affinché si aggiunga a tutte le bellissime cose che scriviamo (ci sono già articoli su questi temi, vedi ad esempio la rubrica Ecofelicità) un’attenzione speciale a suggerire ai lettori di guardare dentro la propria mente, aiutare a cambiare la mente dei nostri figli, decostruendo dentro di essa l’istinto dell’odio. Si potrebbero così aiutare la scuole per gli adolescenti e quelle per i leader a rendere le menti più ben disposte a rendere le differenze una consuetudine gradita, creando leader con menti incapaci di odiare, invece di leader che hanno menti mummificate dall’odio contro ogni diversità. Questo cambio di paradigma dell’educazione dei giovani e dei leader potrebbe richiedere 20-30 anni, ma fino a che non porteremo le neuroscienze, le scienze della mente, al centro di tutte le decisioni sui beni pubblici (ambiente, pandemie, governabilità, sistemi di sovranità politica ed economica, sistemi elettorali democratici a livello nazionale e internazionale, sistemi sociali, etc.) non riusciremo mai a governare le diversità e dunque a rendere sostenibile la pace nelle relazioni dentro e tra i popoli.

Non intendo dire che l’intervento umanitario nei conflitti – che è dettato dal cuore – non serva. Anzi ho scelto il paradigma del farsi prossimo per più di metà della mia vita e vi incoraggio a continuare a impegnarvi come buoni samaritani. Ma investire tempo e buona volontà per aprire nelle menti delle trasformazioni che riducono la violenza sui viandanti visti come nemici per le vie del ridurrebbe anche l’immenso bisogno di buoni samaritani.
Se NP diventasse anche un nuovo progetto che aiuta a sperimentare in questo campo faremmo qualcosa di veramente innovativo che ben pochi al mondo fanno. Perché di istituti di ricerca sulla pace ce ne sono a migliaia, le analisi sulla guerra sono decine di migliaia di pagine ogni giorno. Ma esse contribuiscono efficacemente a cambiare le menti contagiate dall’odio?


Sandro Calvani
Focus - La pace si impara
NP agosto / settembre 2022

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