Nel cuore degli altri

Pubblicato il 23-01-2025

di Matteo Spicuglia

La testimonianza del cardinale Giorgio Marengo, missionario in Mongolia. La libertà come via dell’incontro.

L’altro non è mai distante. Se lo si accoglie con cuore libero, si svela come un tesoro. Padre Giorgio Marengo lo ha sperimentato più volte nella sua esperienza missionaria. Torinese, 50 anni, da più di venti in Mongolia, prima con i Missionari della Consolata, poi come vescovo prefetto apostolico della capitale Ulan Bator. Oggi anche come cardinale, scelto a sorpresa da papa Francesco.
Presenza di frontiera in un Paese dove la Chiesa è giovane, rinata dopo il crollo del comunismo a inizi anni ’90. I cristiani sono appena 1.600 su una popolazione di 3 milioni.
Eppure, lo scambio non solo è possibile, ma dà vita.

Come furono gli inizi in un Paese completamente nuovo?
Quando arrivai, avevo 29 anni. Ricordo ancora la sensazione di trovarmi veramente in un altro mondo, proprio come avveniva per i viaggiatori di un tempo. Mi resi conto che l’incontro passava sempre e comunque dal riconoscere il volto di chi mi stava davanti, scoprendo nell’altro un mistero voluto e amato da Dio.
Siamo entrati così in punta di piedi, anche con la fatica a imparare la lingua e le tradizioni.
Prevalse però il desiderio di entrare in relazione, di vivere lo stupore e la gratitudine per ogni nuovo incontro.

Esiste un metodo per vivere tutto questo con equilibrio?
Più che un metodo, una consapevolezza. Capire che una cultura si incarna sempre nelle persone, nella loro storia personale e collettiva: abbiamo cercato così di abbracciare sia la dimensione individuale che quella culturale. Ogni uomo e donna portano con sé un universo che bisogna conoscere.
E in questo senso non si finisce mai di imparare. La cultura diversa non è un ostacolo. Al contrario, il dialogo genuino parte da persone che accettano la propria identità e sono disposti a mettersi in gioco.

In questi anni, che cosa ha imparato da questo genere di incontri e dalla antica cultura mongola?
Il dialogo mi ha insegnato a relativizzare tanti elementi che riteniamo assoluti. Tutti crediamo di venire dalla cultura migliore. Nel confronto aperto invece si impara a meravigliarsi di come molti popoli abbiano sviluppato capacità e talenti. I mongoli per esempio sono maestri di resilienza. In un Paese cinque volte più grande dell’Italia, con pochissimi abitanti, la regola è prendersi cura delle persone. Esiste un codice di comportamento condiviso che mette da parte l’indifferenza, si è molto rispettosi delle persone anziane e delle donne, per esempio. Ma non solo. Un proverbio dice che le nuvole passano, ma il cielo resta. È l’invito ad andare all’essenziale, a dare importanza a quello che conta, a cominciare dalla natura.

Per poter accogliere è importante avere un cuore libero. Come si fa?
Sì, è così. Il dialogo inteso in senso spirituale parte proprio da questa libertà. San Serafino di Sarov diceva che il cuore libero accoglie lo Spirito Santo.
Gli ostacoli al dialogo non sono le identità definite e forti, ma quando ci facciamo sconti.
Da cristiano non posso mettere tra parentesi Gesù Cristo.
Devo essere sincero e genuino nella fede, altrimenti tutto cade nella falsità. Il dialogo interreligioso non è rinunciare alla propria fede, ma vivere la propria fede accogliendo autenticamente l’esperienza religiosa dell’altro.

Cosa serve?
Dobbiamo ascoltarci con attenzione, avere una preparazione adeguata, studiare le questioni in anticipo e capire le ragioni dell’altro. Dobbiamo superare la mera logica della maggioranza: vale la pena ascoltare tutti a cominciare dai più giovani e dai più piccoli.

Come credenti, possiamo affermare che la relazione con Dio è prima di tutto un incontro. L'incontro con il totalmente Altro…
È vero. La nostra fede parla di un Dio totalmente Altro che vuole entrare in contatto con noi. La preghiera è un esercizio di libertà, un mistero di libertà in cui io posso guardare il Signore e lui guardare me. Il nostro Dio vuole un rapporto personale con noi.
C’è poi la dimensione del suo perdono che tra l’altro colpisce la maggior parte di chi non è cristiano. È il fascino della possibilità di ricominciare, di poter rinascere. Quando confesso, percepisco questa gratitudine e gioia nelle persone che vivono la riconciliazione.
Questo nostro Dio non è un padrone ma un mendicante d’amore, che ci cerca e che desidera stare con noi per accompagnarci.

Spesso sono i credenti a fare fatica a dialogare tra di loro. La polarizzazione delle posizioni a volte sembra essere il modo più facile per (non) dialogare.
La comunione è un dono che va richiesto, è un’azione di Dio partecipata dagli uomini che riguarda noi cristiani e tutti gli uomini. Sono importanti sia la grazia che la responsabilità. Tutti siamo chiamati al discernimento, alla formazione, a esercitare un’autodisciplina, all’umiltà, a riconoscere le ragioni dell’altro.
Non esistono solo il bianco e il nero, ma una gamma ampia di colori.

La missione in passato ha riguardato gli altri continenti. Ora sembra toccare l'Europa. È così?
Tutto vero, ma io penso che abbia ancora senso partire.
Esistono tanti luoghi in cui l’evangelizzazione è ancora embrionale e quindi c’è bisogno di persone che sentano la chiamata dello Spirito. La fede non può fare a meno di una testimonianza, di una mediazione umana, non è un’ideologia che si può leggere o imparare.
C’è sempre bisogno di una parola, di una presenza. Non sono i libri ma le persone che possono incoraggiare la fede.
È necessario riscoprire questa dimensione missionaria, con i vicini, ma anche con i lontani.

Per lei è stata anche una scelta di libertà?
Sì, ricordo che un giorno il responsabile dell’ufficio immigrazione mi chiese perché da italiano fossi arrivato in Mongolia.
Avrei potuto viaggiare in tutto il mondo, essere ovunque.
Per lui, la mia scelta era uno spreco di libertà. Per me era ed è il segno che con Gesù posso spendere la mia vita per gli altri nel modo giusto.
 

Matteo Spicuglia
Focus
NP novembre 2024

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