Nati due volte
Pubblicato il 26-06-2024
Essere nel luogo e nel momento giusto. Senza volerlo, senza aver pianificato nulla. E ritrovarsi a salvare la vita a 47 persone. Dio? Il destino? La provvidenza?
Vito Fiorino non se lo chiede più. Sa solo che quella notte del 3 ottobre del 2013 gli ha cambiato per sempre la vita. Lui viveva da anni nell’isola. L’aveva scelta come luogo del cuore dopo anni di lavoro al nord. Quella sera era uscito con la sua barca per andare a pescare con degli amici.
Si era fatto tardi e il gruppo aveva deciso di dormire e aspettare in rada l’arrivo di un nuovo giorno. Nessuno avrebbe immaginato di ritrovarsi in mezzo al peggior naufragio di migranti mai avvenuto a Lampedusa. «Erano passate da poco le sei e sentimmo delle voci – ricorda oggi Vito – sembravano gabbiani, ma non lo erano. Davanti a noi ci trovammo centinaia di persone che stavano per annegare e chiedevano aiuto. Ci assalì la paura».
A quel punto cosa avete fatto?
Non potevamo certo voltarci dall’altra parte. Ho pensato ai valori che mi avevano sempre guidato e ho deciso di non ascoltare la paura. Abbiamo cominciato ad aiutare quelle persone. La mia barca era piccola, pensavo di non riuscire a far salire più di 4 o 5 naufraghi. In realtà, non ho più guardato i numeri. Mi sono fermato solo quando abbiamo capito che la barca non poteva accoglierne altri.
Alla fine ne ho salvati 47: il più grande di 38 anni, il più piccolo di 13 con una storia terribile. Era scappato dall’Eritrea due anni prima, vagando nel deserto. Adesso vive a Stoccolma.
Da quel momento è nato un legame con tutti questi ragazzi. Lei è ancora in contatto con loro e spesso torna a trovarli nei Paesi del nord Europa dove oggi vivono…
Tutto è nato da un episodio.
Una volta arrivati al molo, uno dei sopravvissuti mi ha indicato parlando al telefono con un amico. Ha usato la parola father, papà. È la prima parola in inglese che ho imparato e che mi ha aperto il cuore. In quel momento c’era la felicità di aver salvato tanta gente, ma quel sentimento è diventato ancora più grande quando mi sono sentito in qualche modo come un padre per loro. Era naturale continuare ad avere una relazione, proprio come un padre che allarga le braccia ai propri figli. È pazzesco pensare a questa vicinanza con persone che nemmeno conoscevo. Ma è andata proprio così.
Pensa mai a chi non ce l’ha fatta?
Sempre, anche perché penso che si sarebbe potuto fare di più per salvare quella gente.
Sono storie terribili. Tra i cadaveri trovarono anche il corpo di una donna con suo figlio ancora attaccato al cordone ombelicale. Come si possono accettare situazioni come queste? Non dobbiamo smettere di ricordare queste storie. A Lampedusa abbiamo creato un memoriale per dare un nome ai morti che in alcuni casi erano indicati solo da un numero.
Invece dietro i numeri ci sono sempre le persone. Oggi com’è cambiata la sua vita?
Io oggi mi sento chiamato a testimoniare, a incontrare le persone, i giovani e i bambini per far riflettere su questa umanità che vive alle nostre porte. In fondo siamo tutti un po’ migranti. Io ho sempre vissuto al nord, ma arrivo dalla Puglia e sono stato bistrattato a volte per le mie origini. Ricordo che per sei anni all’inizio dormii in una cantina a Sesto San Giovanni. Io ero piccolo e non mi rendevo conto, ma i miei parenti soffrirono moltissimo. Non dobbiamo dimenticarci queste storie.
Ne parlo sempre ai giovani che incontro. Voglio far capire nel mio piccolo che abbiamo bisogno di testimonianze vere e autentiche, non di fiction. Solo l’incontro con l’umanità può renderci più umani.
Che riscontri sta avendo?
Bellissimi. Quando racconto il dramma di quella notte a Lampedusa, vedo occhi lucidi, ricevo abbracci.
Tutto questo mi dice che non devo smettere. Andrò avanti fino alla fine.
Renato Bonomo
NP Focus
Maggio 2024