Natale: il Dio in una mangiatoia

Pubblicato il 21-12-2006

di Giuseppe Pollano

Grecia, Osiòs Loukàs, Natività di Cristo, dettaglio, mosaico, fine X secSe Luca non avesse raccontato l’episodio della nascita di Gesù e della visita dei pastori (Lc 2,1-20) il suo Vangelo scorrerebbe lo stesso, eppure avremmo perduto il segno della grande intenzione con cui il Verbo fatto bimbo è venuto tra noi e che possiamo cogliere collocandoci nella prospettiva di Maria che ha cominciato a meditare nel suo cuore le cose del suo bimbo proprio partendo dai pastori.
Sono almeno quattro le grandi lezioni che il Signore ci dà attraverso i pastori.



Non radicarti in questo mondo

Gesù è venuto tra i pastori, la fascia più sradicata e nomade del popolo. Facevano una vita difficile, non potevano abitare nelle città, passavano l’esistenza sotto la tenda, andando sempre a cercare, per le loro greggi, nuova erba e nuova acqua nella terra poco ospitale della Palestina. Un popolo che cammina sempre, che non sa mettere radici.
Giovanni nel prologo del suo vangelo indica l’incarnazione con la frase “pose la tenda in mezzo a noi” – la tenda è dove Dio dimora (cfr Es 40,34-35) – tradotta con “venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). È significativo un Dio che nasce oltre la periferia delle case civili, mette la tenda tra di noi come pellegrino del mondo e, in primo luogo, chiama a sé coloro che vivono senza radici.
Il Signore ha voluto invitarci a ricordare che la patria è lassù, che ciò che chiamiamo vita è un pellegrinaggio nel quale misurare la nostra saggezza, il senso di Dio, il senso dell’eterno e dunque il senso di attesa operosa, senza lasciarsi incatenare dal mondo.
Gesù prima di tutto chiama attorno a sé gli sradicati, quelli che i cittadini disprezzavano, e di questa gente poverissima, che oggi è qui e domani è là, egli comincia a farsi la prima corona di gloria.
Dunque il Natale ci fa cogliere il dono di un Dio che viene per portarci con sé e vivere con quel senso lieto di appartenenza al cielo che può farci dire, come Paolo, che viviamo in questo mondo, ma abbiamo un tragitto diverso da quello che ci propone il mondo, perché non siamo più noi che viviamo, è Gesù che vive in noi (Gal 2,20). Se siamo poveri di spirito e di fatto, se siamo puri di cuore e di vita, se siamo umili di animo e di costumi, se non siamo tormentati dalle ambizioni e dalle invidie, è soltanto perché stiamo camminando verso un’altra patria e sappiamo benissimo che questa vita non è l’ultima, ma la penultima esperienza e la saggezza è vivere nel penultimo in modo degno dell’ultimo.


Ridai volto a chi non ha volto

I pastori, oltre a essere sradicati, erano anche gente senza volto, gente anonima per eccellenza, gente senza la minima importanza sociale.
Il Signore ci dà una lezione straordinaria: è venuto al mondo per distruggere una volta per tutte questo anonimato che è un grande alibi per la nostra indifferenza interiore e per la nostra freddezza di cuore.
La nostra società, in particolare, è molto abile nel costruire l’anonimato. A ciascuno uomo Dio ha invece dato un volto, lo ha guardato e l’ha chiamato per nome, e un semplice pastore vale come Cesare Augusto. Distinguere tra l’imperatore e l’uomo senza volto è un vizio molto difficile da togliersi di dosso, tanto che Giacomo doveva dire ai cristiani, anzi, ai preti e ai vescovi: “Se voi guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: tu siediti qui comodamente, e al povero dite: tu mettiti là, in piedi, non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?” (Gc 2,3-4).
Dio non ha mandato nessun angelo da Cesare Augusto per farci capire che chi lo interessa non sono gli uomini che si danno un volto da soli; anche perché quando un uomo è dominato dal desiderio di darsi un volto da sé, un’importanza da sé, gli rimane molto poco spazio nel cuore per chiunque altro, proprio a cominciare da Dio.
Il compito quindi di noi cristiani è la ricerca di chi non ha volto per ridare volto a chi non ce l’ha. È evidente che per quei pastori fu un’esperienza indimenticabile che fece loro capire che non erano ombre che vegliavano tutta la notte attorno ai loro greggi, ma erano persone vive, talmente importanti che la luce della gloria di Dio s’è accesa proprio attorno a loro e non nel Tempio di Gerusalemme.
Il Natale deve visitarci sotto questo punto di vista, lasciamoci dire da Gesù che c’è gente che non ha nessun rilievo al mondo e occhi in cui nessuno guarda. Solo con l'amore si riscatta dall'anonimato, solo l’amore dona la voglia di accorgersi ancor sempre degli altri.


Ama anche chi ti ripugna o ti fa soffrire

I pastori non solo erano sradicati e senza volto, ma anche quasi gli intoccabili nel popolo di Israele. Per di più la puzza di cui erano impregnati, perché sempre a contatto col gregge, era un campanello che aiutava la gente a scartarli a tempo.
Oggi ci vantiamo di essere democratici, ma l’uomo non cambia usando soltanto qualche parola, e continuiamo ad avere i nostri pregiudizi, i nostri salti di qualità sociale, le nostre regole di convenienza, i nostri ceti, i nostri disprezzi segreti, le nostre distanze, sappiamo abbastanza bene scartare la gente che non vogliamo toccare.
Ebbene, Gesù s’è circondato di intoccabili. Non ne ha avuto paura. Non si trattava soltanto di intoccabili dal punto di vista sociologico del termine, ma anche dal punto di vista morale, perché sicuramente i pastori non erano degli stinchi di santi! Così ci ha detto con chiarezza che gli interessavano gli uomini che non osavano neanche più pensare a se stessi dal punto di vista religioso, tanto si sentivano scartati da tutti.
Se qualche volta è accaduto anche a noi di perdere le nostre speranze morali, di sentirci cattivi o non abbastanza buoni, di non osare quasi alzare gli occhi al Signore pensando che il Signore ben altro pretenderebbe da noi, ci sbagliamo. Gesù avrebbe detto, da adulto: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparate che cosa vuol dire: misericordia io voglio e non sacrificio. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, per i peccatori” (Mt 9,12-13).
Gli intoccabili sono attorno a noi, come ricorda la parabola del samaritano: si ama chi si vuole amare. Parimente si scarta chi vuole scartare, e se si decide che qualcuno non sarà toccato dal proprio cuore e attenzione, egli sarà intoccabile, qualunque cosa faccia.
È importante vivere il Natale facendo un esame di coscienza e una revisione di vita che poggi soprattutto sul nostro tipo di relazioni umane: non possiamo lasciare che uno sia vicino a noi senza fargli arrivare, tanto o poco, secondo le nostre capacità, un messaggio di Dio, cioè un messaggio di cordialità, di amore. Paolo ci raccomanda: “La vostra amabilità sia nota a tutti” (Fil 4,5). Ma per far questo occorre avere il coraggio della generosità, amare con gratuità senza sperare il contraccambio, ama senza contraccambio, il Signore farà capire che è molto meglio dare che ricevere.
Confessiamolo: gli intoccabili ci sono attorno a noi, c’è forse qualcuno che, per ragioni anche umanamente giuste, ci ripugna avvicinare. Possono essere, per esempio, persone che ci hanno ferito o umiliato, calunniato o danneggiato e che non vogliamo toccare con il nostro perdono. L’intoccabile è perciò anche chi non ho ancora toccato con la mia riconciliazione, con la mia bontà, con il mio cuore, è lì che devo impegnarmi. Questa è la logica del Signore.
Il Natale ci chiede di aver paura della meschinità del nostro cuore e di essere disposti sempre ad allargarlo.


Dai gloria a Dio

Di fronte a Dio possiamo dargli gloria, accettando di annunziarlo, o rifiutare di dargli gloria, perché siamo vanagloriosi, cerchiamo la gloria per noi. I pastori, quand’anche avessero voluto, di gloria non ne avrebbero potuta trovare, data la loro situazione. Non correvano il pericolo della vanagloria, e proprio perché erano gli umili, gli schiacciati, gli ultimi, erano pronti ad ammettere che Dio è glorioso. E questo riconoscimento porta alla lode, che è un movimento del cuore, è un entusiasmo, è una convinzione, non è catechismo recitato.
Domandiamoci se la nostra giornata può essere illuminata dalla forza di glorificare Dio con la testimonianza di vita secondo la volontà del Padre e le mille altre maniere in cui un cristiano può essere cristiano; questo vuol davvero dire glorificare Dio ventiquattro ore su ventiquattro.
Si corre un grande rischio quando si lascia crescere in noi il verme dell’ambizione insoddisfatta; se c’è, non dobbiamo né stupirci né scandalizzarci, ma non dobbiamo permettere che ci tormenti e ci roda.
“Gloria a Dio nell’alto dei cieli!” non è una frase da dire, ma il respiro del cuore. Quei pastori ci hanno dato una straordinaria lezione: tu eri niente, eri nel buio, eri fuori, Dio è venuto, ti ha illuminato e tu te ne sei andato lodando e glorificando Dio.

Se ci sentiamo in difficoltà a vivere la lezione che Gesù ci ha regalata attraverso i pastori, diciamolo a Maria, chiedendole che ci renda come il Signore e come questa poverissima gente. Se attorno alla culla portiamo un po’ di questi sentimenti possiamo anche avere umilmente il diritto di dire che abbiamo capito di più il Signore.


tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore


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