Memoria interna

Pubblicato il 07-04-2022

di Matteo Spicuglia

Dall'abisso della Shoah, la storia di Pierre Seel e della sua verità

La memoria è viva solo quando è tutta intera, quando tanti frammenti ne restituiscono pienezza e valore. Anche nella Shoah che il mondo ricorda ogni 27 gennaio. Tra questi frammenti c'è anche la vita di Pierre Seel, classe 1923, nemmeno ventenne negli anni dell'abisso nazista. Nato e cresciuto in Alsazia, in Francia, prese presto coscienza della sua omosessualità, una dimensione che in quegli anni faceva paura, confinata spesso nel segreto di sguardi furtivi e nell'ipocrisia della società borghese. Pierre fu schedato a sua insaputa dalla polizia francese: nero su bianco in schedari trovati dalla Gestapo dopo l'invasione nazista.

Arrestato, interrogato e torturato, a Pierre si aprirono le porte del campo di concentramento di Schirmeck. Con un triangolo rosa sul petto. Furono mesi atroci, di violenza e spersonalizzazione. Mesi che segnarono per sempre la vita di Pierre. È stato lui stesso a raccontarli…

«Un giorno gli altoparlanti ci ordinarono di presentarci immediatamente all'appello. Due uomini delle SS portarono un giovane al centro del quadrato. Inorridito, ho riconosciuto Jo, il ragazzo che amavo, appena diciottenne. Non l'avevo ancora incontrato al campo. Era arrivato prima o dopo di me? Ero gelato dal terrore. Avevo pregato perché non fosse nelle loro liste. E invece era lì di fronte ai miei occhi impotenti, colmi di lacrime. Gli altoparlanti trasmettevano musica classica a volume molto alto mentre le SS gli strappavano i vestiti di dosso lasciandolo nudo e gli ficcavano un secchio in testa. Poi gli hanno aizzato contro i loro feroci pastori tedeschi: i cani lo hanno azzannato all'inguine e tra le cosce, e lo hanno sbranato proprio lì di fronte a noi. Le sue grida di dolore erano distorte e amplificate dal secchio sulla testa. Ho sentito il mio corpo irrigidito vacillare, le lacrime mi correvano giù irrefrenabili, ho pregato perché la sua potesse essere una morte rapida. Per cinquanta anni quella scena è passata e ripassata continuamente nella mia mente: il barbaro assassinio del mio amore…».

Pierre fu uno dei pochi sopravvissuti ai lager. Dopo la guerra, non ebbe il coraggio di dire nulla, né della deportazione né tanto meno del suo modo di essere e di amare. Per vergogna, preferì fingere: si sposò, ebbe tre figli e continuò a tenersi tutto dentro. La svolta avvenne nel 1982, quando il vescovo di Strasburgo, mons. Léon-Arthur Elchinger, durante una conferenza stampa dichiarò di considerare l'omosessualità una malattia. Per Pierre quelle parole furono una pugnalata. Non avrebbe più potuto tacere: decise così di scrivere una lettera aperta, raccontando tutta la sua storia.

La Chiesa e l'opinione pubblica francese si confrontarono così per la prima volta con un dramma taciuto e dimenticato, con un tabù che dava troppo fastidio.

Iniziò in quel momento anche la battaglia legale di Pierre per ottenere il riconoscimento dello status di deportato a causa della sua omosessualità.

Non fu facile, ma ci riuscì. Era il 2001 quando il presidente della Repubblica Jacques Chirac riconobbe pubblicamente quella tragedia. Pierre morì quattro anni dopo nel 2005. Oggi continua a vivere nelle pagine della sua autobiografia: Io, Pierre Seel. Deportato omosessuale.

Intensità rara, la forza della memoria. Finalmente intera!

Matteo Spicuglia

NP Gennaio 2022

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