Lituania, racconto d'inverno

Pubblicato il 27-03-2021

di Luca Periotto

Inverno 2014. Parlerò della Lituania, conducendovi attraverso la porta di un ag- gettivo che definisce proprio ciò che pensai quella volta in cui stavo viaggiando a bordo di un grosso e rumoroso aereo cargo Tupolev diretto a nord est, senza scritte né sedili, bianco proprio come l’abito ricamato che vestiva il passeggero principale di quell’equipaggio insolito: la statua contenente la reliquia di don Bosco partita due ore prima da Brescia per un pellegrinaggio programmato di quaranta giorni.

 

Attraverso il paesaggio baltico lo attendeva una marea di gente che non mancò mai di accoglier- ci con calore e venera- zione ovunque andassimo, da Vilnius a Kaunas: una manifestazione di fede insolita, imprevista a quella latitudine. Devo ammetterlo, sono riconoscente e grato di essere stato parte di quella squadra di autisti di camion e uomini di fatica ingaggiati per trasportare il nostro amico santo: loro con la forza, io con una Leica. È stata un’esperienza commovente, ho potuto vedere da vicino i confini di un’Europa difficile da raggiungere perché troppo lontana, anche solo con il pensiero.

 

A bordo di un vecchio bimotore ad elica noleggiato e appartenente ad una ignota compagnia russa, c'era in quel momento un rispettoso silenzio reverenziale. Loro, gli autisti che lo avevano già portato in giro per il mondo, i miei eroi, non sembravano stanchi. Masticavano il pasto servito freddo in silenzio, senza lamentarsi, come fanno solitamente i camionisti quando ricevono al volo un piatto che sono costretti a ingurgitare per rimanere in forze.

Durante la fase di atterraggio, visto che volavamo a bassa quota, chiesi al pilota di abbassare il portellone sulla coda. Storcendo i baffi bagnati di vodka, con uno sguardo smarrito alla Peter Sellers, provato dalle mie prepotenti pressioni alla fine acconsentì ad abbassare il gigantesco sportello posteriore che si aprì lentamente, preceduto da un suono acuto come da allarme rosso. Abbassandosi, si trasformò improvvisamente in un pericoloso scivolo da luna park mostrandomi la vertigine del vuoto. Mi agganciai alle cinghie rosse aeronautiche usate solitamente dai paracadutisti per lanciarsi, le stesse che assicuravano la reliquia di don Bosco. Sapevo nel mio intimo, che se mai fosse successo un guaio, ci avrebbe pensato lui a trattenermi a bordo.

 

Passata la paura riuscii a fotografare al meglio ciò che stava di sotto, cioè il volto di una superficie geografica appartenente a un Paese fino a quel momento a me ignoto che pensai fosse (ecco l’aggettivo) inerme. Non potrei aggiungere altra parola più adeguata. Nel suo senso aperto racchiude tutte le linee guida necessarie ad orientarmi nella profondità di un territorio torbido, spesso coperto da memorabili nevicate che l’inverno non risparmia.

Nonostante lo sviluppo e il progresso a fatica conquistato in 50 anni di indipendenza dai soprusi nazisti e dall’occupazione russa, la Lituania conserva le impronte indelebili delle marce di soldati in uniforme. Un fruscìo di stoffa e metallo, il flusso di una marcia marziale pericoloso più che mai perché sordo e nefasto; quella tempesta continua che ti coglie alle spalle e che sovente viene generata, in certe epoche opache, dalle nuvole nere che giacciono ben nascoste per operare al meglio come fanno le sanguisughe e i vermi standosene ben zitte e accucciate sotto la terra, per poi agire al momento opportuno, balza- re fuori ai primi segni di debolezza cognitiva.

 

Travestite da utopie, trascinano con sé nella sequenza di una caduta libera, senza fine, le radici di tutti gli alberi sradicati a cui si aggrappano tirandole giù nell’abisso con forza sovrumana, i più malvagi e i più crudeli, quelli di cui non avremmo mai voluto vedere né sentirne il nome, e che tuttavia hanno fatto scempio soprattutto lì, una terra di transizione che si trova per sbaglio proprio su quella linea a nord-est calpestata fin dai tempi remoti dal passaggio delle orde umane che sono transitate da Oriente a Occidente e viceversa. Oggi in quella terra fate e leggende hanno ceduto il passo ad una autentica fede cattolica, ai volti puliti di chi ha lottato per la dignità vera che spetta o dovrebbe spettare di diritto ad ogni nazione autenticamente libera. A Kaunas resta intatto e sopravvive il Caffé Konrad, luogo d’incontri intellettuali tra scrittori, poeti e artisti d'avanguardia.

 

Sulla statale che porta a nord verso le coste del Baltico s’intravvede in un tratto di silenzio una centrale nucleare obsoleta, fotocopia di quella di Chernobyl. Per il resto scheletri di architettura razionalista, bagliori d’ambra tra le scritte decadenti in cirillico che rendono i comprensori urbani spesso simili a incroci vulnerabili. Durante il giorno dell’Indipendenza sventolano bandiere giallo-verdi e rosse sui tetti di legno delle case, nei cortili la gente prepara i grill per cucinare la carne, beve acqua di betulla estratta dalla corteccia della pianta, spillata come la birra e bevuta una sola settimana all’anno per depurarsi, così dicono. A Vilnius, la capitale, i centri commerciali con le vetrate a specchio si rifiutano di riflettere la sagoma del ghetto ebreo dove migliaia di civili durante la guerra persero la vita, sterminati dalla follia nazista. Una parte di cittadini lituani nazionalisti di quei tempi, tacendo, non fece nulla per impedire le prime stragi dell’Olocausto che incominciarono proprio da qui. A Vilnius mi aggiro per il quartiere che ospita su di una collina sommersa dalla neve il più alto edificio lituano: Radio Tower. Una candela grigia e spenta su una torta nuziale di panna. Ricordo senza fatica che fu teatro di un tragico evento della storia recen- te durante la notte del 12 gennaio del 1991. L’Unione Sovietica del premio Nobel Gorbaciov attaccò militarmente la Lituania – che aveva osato proclamarsi indipendente nel marzo del 1990, dopo cinquant'anni di occupazione russa – assalendo la popolazione civile che per giorni aveva presidiato i siti più strategici come il Parlamento e la sede della tv nazionale. Quella notte quattordici civili persero la vita e altri settecento rimasero feriti nel tentativo di opporsi al sequestro militare sovietico.

 

Potrei essere scambiato per un lampione che spunta da una nuvola di cotone. Così potrebbe avermi visto da dietro il parabrezza il taxista che mi attende, senza fretta, con il motore acceso, mentre termino di scattare qualche fotografia. Una volta a bordo, controllando la Subaru che sbanda e si raddrizza commenta: «Come dice Tomas Venclova: Tutto ha un limite: orizzonte – la pupilla, in preda alla disperazione – Memoria, per la crescita...» .

 

Testo e foto di Luca Periotto

NP gennaio 2021 

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