La retorica del presidente
Pubblicato il 31-10-2024
In un suo recente intervento, parlando con i leader del partito AK da lui fondato, nella sua città natale di Rize (il contesto è particolarmente importante e determina il registro della conversazione), il presidente turco Tayyip Erdoğan si è, tra l’altro, così espresso: «Le nostre esportazioni erano di 36 miliardi di dollari, ma ora abbiamo raggiunto i 250. La situazione migliorerà. Dov’era il nostro import-export nell’industria della difesa e dov’è ora? Ma cari fratelli e sorelle, non lasciate che questi successi ci ingannino. Dobbiamo essere molto forti, in modo che questo Israele non sia in grado di fare queste cose alla Palestina. Come siamo entrati in Karabakh, come siamo entrati in Libia, così possiamo fare qualcosa di simile a loro [Israele]. Non c’è motivo per cui non dovremmo essere in grado di farlo. Dobbiamo solo essere forti per poter fare questi passi.» Emerge qui la quintessenza della retorica del Presidente, già più volte analizzata: decisa e rassicurante al tempo stesso, in un perfetto stile paternalista. Ciò che pare davvero innovativo è il tentativo di fissare nuovi orizzonti, prima di tutto emotivi, in una fase in cui la parabola politica del leader ha indubbiamente iniziato il suo declino.
Da grande animale politico qual è, Erdoğan vuole consegnare alla storia il bilancio del suo percorso politico, da intendersi come un movimento che è anche processo di non ritorno, inaugurato dalle intuizioni, talvolta geniali, consolidate nel decennio d’oro tra il 2000 e il 2010.
Colui che ha sempre avuto come modello (inconfessato) il carisma di Mustafa Kemal, ha imparato molto dal tentativo, fallito, di rimpiazzarlo al cuore della storia turca e desidera ora, almeno perpetuare il suo ricordo accanto a quello dell’incontestabile “Padre della Patria”.
Evidentemente, volendo spingere l’immaginazione politica dei suoi seguaci, per fissare nuovi obiettivi davanti a loro, tocca le loro corde emozionali menzionando un “possibile” intervento militare nel conflitto israelo-palestinese. Evocare questo fronte, più che far riferimento a una concreta opzione militare, gli permette di evidenziare implicitamente l’indiscutibile successo economico e strategico (ben oltre i confini della patria, soprattutto nel Caucaso e in Nord Africa) conseguito con l’industria bellica e, in particolare, con la produzione dei droni Bayraktar. Queste benemerenze non bastano certo da sole ad arginare la catastrofica situazione economica che la Turchia sta attraversando, ma il leader dimostra di non ignorare il dato poco lusinghiero della crisi, anche astenendosi, a dispetto della retorica bellicista, dalle sanzioni economiche a Israele, ben sapendo che danneggerebbero ulteriormente il benessere economico della Turchia. Ecco perché, su questo fronte, è meglio essere “multilateralisti”. Non a caso, quasi nelle stesse ore, la Turchia presentava alla Corte internazionale di giustizia la sua richiesta di intervento (dopo Nicaragua, Colombia, Libia, Messico, Palestina e Spagna) nella causa contro Israele con l’accusa di genocidio, intentata dal Sud Africa.
A commento di questa iniziativa il ministro degli Esteri turco ha dichiarato che la comunità internazionale deve intervenire per fermare il genocidio ed esercitare la necessaria pressione su Israele e sui suoi sostenitori. Quello che può sembrare un gioco su due tavoli, è in realtà una perfetta illustrazione delle dinamiche della diplomazia internazionale. Anche per questo, è difficile non riconoscere che a livello diplomatico-strategico, Ankara si situa perfettamente nel concerto della politica internazionale benché, formalmente, molto spesso tenuta ai margini. Ipocrisia questa, di una politica con poca visione e con molta coda di paglia che, paradossalmente, da più di vent’anni, rafforza la posizione interna dell’astuto Tayyip, ben al di là dei suoi stessi successi.
Claudio Monge
NP agosto/settembre 2024