La fabbrica dell'amicizia

Pubblicato il 26-11-2018

di Marco Grossetti

di Marco Grossetti - Giorgia è una bambina italiana figlia di genitori italiani. Se i ricercatori del National Geographic organizzassero una spedizione a Porta Palazzo, nel cuore di Torino, Giorgia rischierebbe di essere considerata tra i pochi esemplari di una razza tristemente a rischio d’estinzione, come il rinoceronte di Sumatra, il gorilla di pianura occidentale, il coccodrillo delle Filippine. Giorgia cammina per le strade della sua città e sembra una straniera, persa tra occhi a mandorla, uomini dalle pelle nera come il carbone, donne con un velo che avvolge delicatamente il loro viso come la cornice di un quadro. Le orecchie sentono quello che vedono gli occhi: lingue sconosciute, parlate da uomini e donne, catapultati dal destino a vivere la loro vita in una città distante anni luce dal posto dove sono nati e cresciuti.

I grandi vivono uno a fianco all’altro senza conoscersi, perso ognuno in una profonda solitudine, vuota di lavoro e quindi di soldi e di vita, piena di fatica, problemi e ancora problemi, che rendono l’Italia un po’ meno bella. Qualcuno è qui da un secolo e non sa ancora una parola di italiano. I bambini si incontrano naturalmente a scuola, riempiono aule che altrimenti sarebbero vuote e inutili. Non sono cittadini italiani, ma loro sì, sono tutti nati e cresciuti qui. Il colore della pelle, il vestito, la religione e la cultura sono etichette che mettono i grandi e che a loro non servono: bianco, giallo o nero non significa niente, è come buddista, cristiano o musulmano, come italiano, arabo o cinese. Non significa niente, almeno per loro, almeno per qualche anno ancora. A Giorgia non importa, quando deve cercare una bambina per giocare con le bambole o saltare la corda, se è bianca come il latte o gialla come Spongebob.

Per mamma e papà è tutto diverso: Porta Palazzo non ha il fascino di un quartiere multietnico, è un ghetto in cui sono rimasti prigionieri e da cui possono scappare, una terra che ha subito un’invasione. Loro sono la minoranza. L’Arsenale della Pace è una vecchia fabbrica d’armi dentro il ghetto. Gli stessi bambini che si incontrano a scuola vengono a chiedere a modo loro un po’ di affetto e un po’ di amore. C’è un muro invisibile che li divide dagli altri bambini della loro stessa città: una discriminazione fatta di possibilità che loro non hanno, di famiglie che nel 2018 vivono senza acqua calda, senza riscaldamento o senza lavatrice, di case dentro cui si litiga tanto che sembra di stare dentro una guerra, del livello di istruzione più basso a cui possono accedere nelle scuole pubbliche del territorio. Loro non lo sanno di essere circondati da muri di paura e di odio che non si possono oltrepassare. Neanche se piangi, neanche se hai fame, neanche se hai freddo.

La lingua italiana che per regola tutti devono parlare è il punto di contatto che rende possibile l’incontro, la condizione necessaria perché le diversità possono diventare ricchezza. Giorgia balla muovendosi allo stesso ritmo di una bambina marrone come il cioccolato, non si stacca un attimo dalla sua compagna musulmana e mangia al fianco della sua amica cinese, scambiando un po’ della sua pasta al pomodoro con due involtini primavera. Amicizia per loro è una parola sacra, magica, la più forte e la più grande del mondo: la sua amica cinese, non potrà mai essere una brutta cinese, è sua amica, la sua amica musulmana non potrà mai essere un’infedele, è sua amica. Amicizia è la loro bussola per non perdersi, il loro rifugio per non avere paura, il loro cuore per non sentirsi diversi. I ragazzi più grandi si prendono cura dei più piccoli come se fossero piccoli fratelli o piccole sorelle. Perché non sono più cinesi, arabi, rumeni, italiani. Sono persone. Bambini. Anime. Che dentro hanno lo stesso colore. La vecchia fabbrica di armi lavora a pieno ritmo giorno e notte. Adesso produce amicizia. Non capita per caso e non succede per forza. Sarebbe più facile odiare, chiudersi, isolarsi. Per una naturale legge di sopravvivenza, in un tempo in cui abbiamo sempre di meno e ci ritroviamo ad essere sempre di più. Abbiamo poco e quel poco dobbiamo preservarlo, custodirlo, difenderlo. Metterlo al sicuro. Non possiamo anche aiutare gli altri. Zygmut Bauman, ha scritto: «Gli estranei sono l’incarnazione stesse dell’insicurezza e di conseguenza impersonano l’incertezza che tormenta la nostra vita. Da un certo punto di vista bizzarro quanto perverso, la loro presenza è rinfrancante, perfino rassicurante: le nostre paure soffuse e frammentate, difficili da inquadrare e da definire, hanno ora un bersaglio concreto su cui focalizzarsi; ora sappiamo dove cova il pericolo e non è più necessario attendere a capo chino i colpi che il destino ci riserva. Finalmente possiamo fare qualcosa».

Giorgia e i suoi amici di tutti i colori escono da scuola e anche oggi raggiungono la fabbrica dell’amicizia. Arrivano correndo, come se avessero fretta di ritrovarsi insieme. Per loro essere poveri non c'entra niente con i soldi e con le cose. Vuol dire rimanere da soli. È l’unica cosa che li fa morire di paura: ritrovarsi senza nessuno. Degli occhi che li guardano pieni di spavento e di odio, loro non se ne accorgono neanche. La loro sicurezza non è fatta di muri più alti del cielo, di chilometri e chilometri di filo spinato, di sofisticati sistemi d’allarme, di telecamere che tengono tutto sotto controllo. Loro hanno bisogno di fare entrare dentro e non di lasciare fuori, di stare vicino e non di tenere lontano. Funzionano al contrario dei grandi. Si sentono protetti se possono stringere una mano, abbracciare una persona, se altri occhi guardano i loro occhi. Appartengono tutti allo stesso sogno. Questa è la loro sicurezza, la loro tranquillità, la loro pace.

Fa impressione quanto possono riuscire a volere ed a volersi bene. Anche alla mamma e al papà di Giorgia. Perché nella felicità che fa brillare gli occhi della loro figlia, c’è la bellezza di un mondo nuovo dove tutti nascono fratelli e possono scegliere di rimanerlo.

Marco Grossetti
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