La bellezza sequestrata

Pubblicato il 02-10-2020

di Claudio Monge

Fiumi di inchiostro sono stati scritti a proposito della recente riconversione di Santa Sofia, antica Basilica cristiana bizantina e capolavoro assoluto dell’architettura di tutti i tempi, al culto islamico. Ciò che sorprende è che, a distanza di quasi 1.500 anni dalla sua fondazione, su quest’edificio continuano animati dibattiti relativi all’esclusiva del suo uso religioso e ai poteri che, più spesso, hanno interferito in quest’uso, per fare di questo luogo simbolico un riferimento di prestigio autoreferenziale. Quanti però hanno davvero visto questo capolavoro e, vedendolo, hanno saputo contemplare in silenzio la bellezza che si sprigiona dalle ardite forme di un’architettura che ha precorso i tempi, e dalle decorazioni, testimonianza tangibile di culture, sensibilità, saperi e maestranze talvolta molto diverse ma in ogni caso di assoluta eccellenza?
Il 29 maggio 1453, quando dopo giorni di assedio, si apre una breccia nelle mura teodosiane della città di Costantinopoli e gli ottomani fanno irruzione nella seconda Roma, il conquistatore, Maometto II, si dirige a cavallo senza esitazioni proprio verso Santa Sofia.

Di essa aveva spesso sentito parlare in termini entusiastici: quello era il cuore simbolico della città e in esso si doveva consumare il passaggio di consegne tra Imperi a pretesa universale e legittimazione divina, da quello Bizantino a quello Ottomano. Le cronache dicono che il Sultano, pertanto avvezzo alle conquiste e alle occupazioni di città e scrigni d’arte, sia sceso da cavallo stupito e soggiogato dallo splendore di Santa Sofia, tanto da colpire un soldato dei suoi che, accecato dal fanatismo, si accaniva contro il pavimento marmoreo frantumandolo. Se quel luogo era iconograficamente incompatibile con un contesto di preghiera islamico aniconico, non si poteva eliminare la straordinaria attrattiva estetica che esercitava, imponendo con la sua bellezza un rispetto estasiato. Molte persone ci hanno chiesto se non sia normale, per dei credenti, auspicare che un luogo di culto, anziché essere musealizzato (come Mustafa Kemal Atatürk aveva fatto per Santa Sofia fin dal 1934), possa ritornare alla sua antica funzione cultuale. L’osservazione non è banale.

Ma che fare quando, nell’impossibilità di un uso inter-religioso e inter-rituale (non l’abbiamo mai considerata una prospettiva realistica per il capolavoro di Istanbul, visto anche i poco felici precedenti, come quello della Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme), un orientamento cultuale specifico comporterebbe comunque un torto ad una parte che storicamente ha potuto beneficiare di un luogo di culto che attraversa i secoli (come nel caso dei cristiani a Santa Sofia)? È qui che bisogna spostare la riflessione in un’altra dimensione, recuperando l’importanza di preservare luoghi che “elevino” l’uomo al mistero di una Trascendenza che convoca e non divide. Non possiamo dimenticare che la bellezza, in quanto esperienza e non semplice idea, è propedeutica all’incontro spirituale! Il Bello, ci fa sentire che c’è “un di più” dietro le cose: esso è come uno squarcio sull’oltre, sul mistero, sull’infinito.

La bellezza è santa perché è pane che nutre la qualità della vita, e questo indipendentemente dalla fede a cui si fa riferimento. Il problema è capire di che cosa ci nutriamo. Il rischio è quando mangiamo pane avvelenato: nutrendoci di egoismi, di intolleranze, di miopie dello spirito, di insensatezza del vivere, di superficialità, di paure. Se accogliamo pensieri dai bassifondi del vivere, questi ci rendono come loro, incapaci di elevarci e egoisti sequestratori del bello. Se invece accogliamo pensieri di bellezza, essi ci fanno uomini e donne della bellezza: pronti all’incontro con la bellezza abbagliante di Dio, come chi, ammirando uno straordinario panorama, è solo preoccupato di immergersi in esso e non certo di occultarlo alla vista di altri!

Claudio Monge
NP agosto / settembre 2020

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