L'altro perduto

Pubblicato il 18-03-2021

di Claudio Monge

Negli ultimi anni si fa un gran parlare dell'importanza crescente del cinema indipendente, senza grandi mezzi ma ricco di spunti e idee originali. Il fenomeno Bir Baśkadir (in turco letteralmente "è un altro") rientra a buon diritto in questa categoria.Si tratta dell’ultima delle produzioni turche originali per Netflix (la nota piattaforma di distribuzione via internet di film, serie televisive e altri contenuti d’intrattenimento a pagamento), uscita il 12 novembre con otto episodi di un 45 minuti ciascuno, con sottotitoli in inglese arabo e greco e col titolo Ethos, per il mercato Occidentale. Scritto e diretto da Berkun Oya, un rispettato drammaturgo turco, Bir Başkadır, è l’esatto contrario di un prodotto commercialmente accattivante: non c’è azione, nessuna storia intricata, ma lunghi dialoghi, ritmo da cinema d’essai e lavoro approfondito sulla psicologia dei personaggi.

Eppure, in Turchia, sta scatenando un incredibile dibattito tra detrattori, non così numerosi, ed entusiasti sostenitori. Di fatto, è una serie che ha qualcosa di profondo da dire sulla Turchia di oggi, ma lo fa in modo sottile, non caricaturale, obbligando ad una riflessione che va al di là degli stereotipi e delle sterili polarizzazioni.

L’asse focale di Bir Başkadır è la forza della recitazione di Öykü Karayel, che interpreta il personaggio principale di Meryem: una giovane donna velata, al tempo stesso timida ed audace. Meryem ha sofferto di svenimenti ma i primi esami medici propendono per un problema di origine psicologica e la protagonista è orientata verso lo studio psichiatrico di Peri (Defne Kayalar). Se Meryem è la tipica figlia con istruzione elementare di famiglia conservatrice della periferia rurale di Istanbul, la sua psichiatra appartiene al polo opposto della società turca: ricco, istruito all’estero e laico. Emerge così il primo asse tematico di Bir Başkadır, il divario tra il pio e il laico, tra i conservatori e i kemalisti, tanto reale quanto cliché, spesso abusato anche nella visione che si ha della Turchia, considerata una chiave onnicomprensiva per capire tutto ciò che è necessario sapere sul Paese. 

Ma la serie di Netflix non cade nella trappola della banalizzazione superficiale, perché mostra il funzionamento di questa dialettica nella vita di tutti i giorni e l’impossibilità di ridurla ad uno scontro manicheo tra mondi incapaci di comunicare. Peri, nei suoi incontri con il suo supervisore Gülbin (Tülin Özel), ammette che non può liberarsi dei pregiudizi contro le donne velate, esprime il suo disagio sia professionale che personale rispetto alla sua attitudine, ma riconosce di essere dominata da un forte risentimento nei confronti di chi, di fatto, rappresenta la maggioranza che detiene il potere nel Paese (coraggiosa allusione, neppure troppo velata, al conservatorismo religioso e politico dell’AKP, al potere da un ventennio).

Come non bastasse, nonostante la sua presunzione di superiorità, Peri è messa in crisi da Meryem con il suo modo astuto di sviare certe domande troppo dirette, prendendosi in fondo gioco di chi pretenderebbe, con una certa arroganza, di anticipare le sue risposte. In più, l’eroina della serie è il punto di intersezione di altri personaggi che rappresentano altrettante tipologie caratteriali e psicologiche che affollano il quotidiano di una megalopoli come Istanbul: il playboy ricco ma depresso, la famiglia curda della media borghesia divisa dalle convinzioni politiche, un’attrice di soap opera insoddisfatta dall’arte ma troppo attaccata allo status sociale che ne deriva, una sopravvissuta allo stupro, un ex soldato che lavora come buttafuori in un club, un hodja, ovvero maestro di saggezza, imam di una piccola moschea di quartiere e giardiniere. Storie che si interconnettono un po’ inverosimilmente, ma che offrono il caleidoscopico panorama di un’intera società.

L’osservazione di ciascun personaggio in frammenti di vita concreta permette al regista di evitare di cadere nell’approccio didattico o moraleggiante, così come nella propaganda di chi vuole a tutti i costi portare lo spettatore a fare il tifo per una parte contro un’altra. E questo è forse il segreto del successo di Bir Başkadır. Come ricorda l’editorialista turco Kenan Behzat, in una società che soffre di una drammatica polarizzazione e di profonda sfiducia reciproca alimentata da un potere che specula sulla paura e incoraggia la delazione, la serie immagina la via di una possibile coesione sociale, là dove si accetta di correre il rischio delle conversazioni difficili, capaci di sfidare il tributo psichico e sociale di un silenzio che accresce le angosce personali e l’incomunicabilità interpersonale!


Claudio Monge
NP gennaio 2021

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