Josefa sa il perché

Pubblicato il 05-06-2019

di Nello Scavo

di Nello Scavo - Un naufragio, mille polemiche, una preghiera.
Ogni tanto, da qualche parte in Oriente, capita di ascoltare un vecchio che ti ricorda di invocare l’Altissimo, perché “pregare è come respirare”. Da qualche parte nel Mediterraneo, smettere di pregare può voler dire affogare. Josefa sa il perché. Il 16 luglio 2018 la Guardia costiera libica intercettò un gruppo di migranti alla deriva. A distanza di mesi si sa poco di come avvenne il recupero dei profughi. Le note ufficiali parlavano di “soccorso” e di “salvataggio”, ma quando di mezzo ci sono i libici sarebbe bene adoperare un vocabolario più cauto. Perciò molti giornalisti preferiscono scrivere semmai di persone “intercettate”, oppure “recuperate” dalle motovedette di Tripoli. Il “salvataggio” presuppone l’idea stessa di “salvezza”, che ha molto a che fare con la “liberazione”. Ben diverso è “salvare” qualcuno da rispedire in un lager come sono quelli per i migranti in Libia.

Sempre quel 16 luglio, mentre nei desk delle agenzie di stampa si cercavano conferme alle fonti tripoline, arrivò un’altra notizia. L’organizzazione non governativa spagnola Open Arms incrociò un relitto e tre corpi. Solo il cuore di una donna batteva ancora. Per afferrarla alla vita, Marc Gasol, campione iberico esportato nella massima serie del basket Usa, quasi si ruppe una mano rischiando la carriera. Alto 2 metri e 16, Gasol era lì per una sola ragione: «Da padre, pensando ai miei due figli, ho deciso che dovevo fare qualcosa». L’unica superstite di quella disgrazia si chiama Josefa, è camerunese, ed è stata curata per mesi dalla Croce rossa spagnola in una struttura protetta. Quasi immobile sul suo letto, ha continuato a lottare contro i fantasmi di quella sera. «Sto meglio. Ringrazio tutti. Oggi comincio a muovere i primi passi», disse in un messaggio audio che mi venne recapitato a metà ottobre, proprio mentre ero a bordo di Astral, il veliero di salvataggio di Open Arms. Josefa si stava finalmente rialzando. Per cento giorni non era riuscita più a muovere le gambe. Paralizzata dagli spettri di quella notte abbandonata nel Mediterraneo. I soliti razzisti dal tweet facile l’avevano irrisa per settimane: «La naufraga con lo smalto», dicevano. Era successo che le volontarie di Open Arms, vedendola immobile, spaventata, la presero a cuore con quelle cure che solo le donne capiscono. I capelli da pettinare, la crema sul viso disidradato dopo ore alla deriva, e lo smalto rosso che l’avrebbe fatta sentire amata, al sicuro, finalmente libera di non avere più paura.

Il pregiudizio e i fanatismi ideologici non lasciano spazio alla complessità. Nessuna agibilità per le opinioni contrarie o per le infinite e imprevedibili variabili della Storia. Josefa, infatti, senza neanche saperlo era venuta a mettere alla prova la nostra identità. Quella in nome della quale si vogliono chiudere i porti, le frontiere, il cuore. Per mesi Josefa aveva custodito un segreto. Il giorno dopo essere stata abbracciata tra le onde dai ragazzi di Open Arms riuscì a parlare solo per pochi momenti. E a una delle soccorritrici volle dettare i suoi ricordi, perché neanche quelli andassero alla deriva.

Lei, la quarantenne camerunese, la donna che avrebbe rappresentato la minaccia all’Europa cristiana, quella sera cercava di “respirare”. «Ero in mare con molte persone dall’Africa. Quando mi hanno abbandonata (...) ho pensato che ero già morta». Le preghiere spesso nascono così. «Ho cominciato a pregare, invocando la Stella del Mare. Le ho detto: “Mamma, tu sei mia madre, sei la Stella del Mare, e qui siamo solo io e te. Fa un miracolo, e vieni qui a trovarmi”. A Gesù ho detto: “Padre, tu sei mio padre, Io so che tu sei qui e so che niente è impossibile per te. Non lasciarmi qui. Io non ho paura”. Dunque, ho cominciato a cantare una preghiera. Quando ho finito la canzone, sono caduta nel sonno, fino al momento in cui mi sono ritrovata qui, su questa barca».

Hanno ragione quei vecchi d’Oriente. “Pregare è come respirare”. Che poi vuol dire vivere, e lasciarsi abbracciare. «Qui – disse Josefa ancora sulla nave dei samaritani del mare – sono con persone dal cuore grande. Si stanno prendendo cura di me. In tutta la mia vita, prima di adesso, non avevo mai incontrato persone come queste».

Nello Scavo
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