In cerca di futuro
Pubblicato il 23-11-2024
Jasmine e Harry vivono in una tenda fatta di plastica e cartone, larga quattro metri quadri. Sono moglie e marito, in braccio hanno un bambino di tre anni.
«Venite qui, mettiamoci in cerchio», ci dicono. Noi ci raduniamo, ci prendiamo le mani, loro iniziano la preghiera.
«Padre Nostro che sei nei cieli, benedici il nostro viaggio». Arrivano da Haiti, paese martoriato fino alle viscere, e hanno bisogno di arrivare negli Stati Uniti.
Per ora però sono fermi in città, accampati insieme a centinaia di altre persone lungo i binari di una ferrovia, nella periferia della città.
È una delle prime immagini che abbiamo di Città del Messico.
Siamo arrivati nel Paese da pochi giorni: in dieci, siamo partiti per andare a trovare suor Katia di Serio, suora comboniana che vive e opera proprio in città. È lei la nostra guida, lei che ci porta al cuore delle faccende, lei che ci mette faccia a faccia con le persone migranti.
Primo, i dati di realtà: per il Messico passa una delle rotte migratorie più mortali al mondo. Decine di migliaia di persone partono da Venezuela, Honduras, Haiti, Colombia e hanno come meta gli Usa. Per arrivarci devono transitare proprio sul territorio messicano.
Vendono la loro casa per avere i soldi per il viaggio, poi partono a piedi e camminano per mesi, a volte per anni.
Non hanno alternativa: chi parte lo fa perché a casa propria non trova più una dimensione di futuro. A controllare la rotta migratoria è la criminalità organizzata.
Pagare, questo è il verbo che permette ai migranti di continuare il cammino: prima con i soldi, poi con i propri corpi, a volte con la vita.
Sequestri, rapimenti, abusi, torture, violenze, sono i pezzi di inferno che le persone si portano sulla pelle. La situazione negli ultimi mesi ha subìto un cambiamento significativo: a Città del Messico, il numero di migranti è aumentato di molto per un motivo sostanzialmente burocratico.
L’amministrazione americana ha emesso da un anno un’applicazione che permette di ottenere un colloquio legale alla frontiera statunitense, ma per accedere all’app i migranti devono fisicamente essere a Città del Messico. Tra la registrazione e la risposta americana, però, passano settimane, a volte mesi.
Così le persone si accampano in modo informale o trovano ospitalità nelle Case dei migranti che – nei casi positivi – sono realmente un posto sicuro.
Proprio in una casa per le persone migranti anche noi ci fermiamo per alcuni giorni. Siamo lì solo per stare, guardare, lasciarci attraversare dagli incontri che facciamo. Le pareti sono gialle, l’edificio ha tre piani con cancelli che si alzano fino al cielo, una misura necessaria per proteggere le persone da un quartiere che può essere crudele. I migranti cucinano, giocano, chiacchierano, lavano i vestiti e poi li fanno asciugare. Conosciamo Miguel, che gestisce buona parte di ciò che accade nella casa.
Ha 27 anni ed è stato minacciato già quindici volte per il suo lavoro di protezione e cura dei migranti.
«Sì, certo che ho paura – dice – Ma l’amore per questa umanità è più forte». Incontriamo Ales, un bambino di cinque anni che si arrampica sulla schiena facendo l’imitazione di un ragno, suo animale preferito a pari merito con lo scorpione. Ora chiacchiera, salta e urla, ma quando è arrivato alla Casa del migrante non parlava più per lo shock di ciò che ha vissuto durante il suo viaggio dal Venezuela. Ogni tanto sentiamo suonare una campana: è il segno che qualcuno è riuscito a ottenere un colloquio legale alla frontiera statunitense, entro pochi giorni dovrà partire. Tutti applaudono, esultano, la speranza si tocca con le mani. Ma non c’è alcuna assicurazione, solo un passaggio burocratico in più a cui aggrapparsi: a quel colloquio ci potrà essere un sì o un no, una nuova vita da costruire o un respingimento.
Ascoltiamo padre Juan Luis, il responsabile della casa, che ci parla delle cause strutturali della migrazione, di mani che arrivano da lontano per depredare i popoli, con una buona responsabilità dei Paesi occidentali, i più ricchi, i nostri.
Non vorremmo più andare via. Qualche lacrima ci scende dagli occhi quando dobbiamo salutare le persone che abbiamo incontrato. Ma la nostra è solo un’esperienza: arriviamo e ripartiamo.
Il risultato è che nel cuore si spalancano domande grandi, quelle che si scatenano quando si condivide un poco di tempo con chi ha una vita totalmente diversa dalla propria. Domande che forse non troveranno mai una risposta.
Però fanno venire voglia di capire di più e meglio, di informarsi, di vivere più forte, di tenere quei volti nel cuore, di stringere l’indignazione per trasformarla in azioni concrete. Di farsi plasmare.
Chiara Vitali
NP agosto / settembre 2024