Il vero rapporto con Dio

Pubblicato il 26-11-2014

di Giuseppe Pollano

di Giuseppe Pollano – Il testo, del cosiddetto terzo Isaia, che la liturgia ci propone nella I domenica di avvento anno B appartiene ad un periodo drammatico della storia di Israele. Il grido del profeta è un grido di infelicità che sale a Dio. Ma non si ripiega in una disperazione, prorompe in un grido di chiamata.

Tu, Signore, sei nostro padre,
da sempre ti chiami nostro redentore.
Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
Davanti a te sussulterebbero i monti.
Quando tu compivi cose terribili che non attendevamo,
tu scendesti e davanti a te sussultarono i monti.
Mai si udì parlare da tempi lontani,
orecchio non ha sentito,
occhio non ha visto
che un Dio, fuori di te,
abbia fatto tanto per chi confida in lui.
Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia
e si ricordano delle tue vie.
Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.
Nessuno invocava il tuo nome,
nessuno si risvegliava per stringersi a te;
perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto,
ci avevi messo in balìa della nostra iniquità.
Ma, Signore, tu sei nostro padre;
noi siamo argilla e tu colui che ci plasma,
tutti noi siamo opera delle tue mani.
(Isaia 63,16b-17.19; 64,1c-7)

In questo brano emergono tre sentimenti fondamentali.

Raffaello Sanzio, Il profeta Isaia
un grande bisogno e rimpianto di Dio

È un'esperienza che si può fare nel segreto a livello personale, in un gruppo affiatato, ma anche a livello di collettività umana. È importante sentire in chiave planetaria questo bisogno di Dio, che Isaia chiama qui col termine padre per evidenziare una stretta relazione di affetto. Un bisogno però che è anche un rimpianto, facendo memoria dei tempi diversi in cui Israele ricorda la presenza di Dio. È un grido da coltivare, da far diventare il grido della vita.
Di fronte a tutto ciò che è accaduto e accade a livello di guerre, conflitti, ingiustizie o ci si chiude nel proprio guscio e si cerca di non pensarci oppure rimane aperto il problema. Abbiamo un bisogno immenso di Dio, lo rimpiangiamo perché i frutti di questi orrori sono poi soltanto una rinnovata divinizzazione dell'uomo.


l'umiltà e la confessione dei peccati

Abbiamo peccato
contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli.
Siamo divenuti tutti come una cosa impura,
e come panno immondo sono tutti i nostri atti di giustizia;
tutti siamo avvizziti come foglie,
le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento.

È un senso di sradicamento totale da parte di una comunità che è in stato di dispersione, nonostante tutte le sue strutture e organizzazioni.


la speranza supplichevole

La necessità di umiltà e confessione del peccato non si concludono quindi in una sconfinata tristezza, ma sanno diventare una speranza supplichevole. Non è che a noi manchino le speranze, forse ci manca ancora la profonda arte della supplica, che è il cuore che piange e che ride: questo è il vero rapporto. Su Dio non basta disquisire, non basta fare convegni o scrivere libri, ci vuole un rapporto vivo, drammatico, che nasca in maniera sincera dall'aver capito che o questo rapporto si restaura o tutto è finito.

Rimpianto di Dio, umiltà e confessione dei peccati, speranza supplichevole: tre sentimenti che servono molto anche alla nostra vita personale, perché è un dono di Dio saperlo anche rimpiangere, saper rimpiangere i nostri momenti migliori e i nostri momenti di maggiore grazia, in cui ci siamo sentiti felici perché eravamo uniti a Dio. Il rimpianto non è una tristezza, è piangere su un passato che può benissimo rinnovarsi, il rimpianto perciò è il fratello della speranza! Chi non rimpiange mai nulla di Dio, di sé, della propria ricchezza morale, ha perso il gusto del cristianesimo.
Il rapporto con Dio deve diventare così drammatico da prendere tutto, perché è evidente che è l'essenza dell'esistenza stessa. Qui occorre rovesciare una prospettiva: per molti la religione è una parte dell'esistenza, invece è l'essenza dell'esistenza, è ciò per cui si esiste ed è ciò di cui si esiste. Non bisogna ridurre la religione a un momento, anche se fosse il più importante, della nostra esistenza, come se poi questa potesse essere fatta di mille altre cose che hanno proprie regole e vanno per i fatti loro.

Vivo per Dio! È la verità profonda che ha impregnato Gesù Cristo e tutti i santi. La vita poi ha le sue vicende e le sue complicazioni, ma è bello poter dire che l'essenza della mia vita è il mio rapporto con Dio. Non solo siamo tutti in grado di farlo, perché siamo figli di Dio e portiamo in noi il suo Spirito, ma siamo chiamati a farlo, per cui, se non lo si fa, si cade nel disagio, come se avessimo dimenticato la cosa più grande. Pensiamo anche solo come si rimane male quando si perde il portafoglio, c'è un affanno che non è legato al portafoglio, ma ad un qualcosa di importante che dovrebbe esserci e non c'è più. È certamente un fatto psicologico, ma è analogo a quel senso di qualcosa che manca se il rapporto con Dio non è centrale.
Questo disagio è una grazia di Dio: molto spesso oggi Dio ci richiama per mezzo del disagio interiore. Se noi sappiamo interpretarlo, ci accorgiamo che ci manca Dio.


il contesto culturale da cui partiamo

La nostra cultura è molto stimolante sotto questo profilo, perché è molto povera, per cui a maggior ragione dobbiamo starci dentro con una forza di lievito per dire che il rapporto con Dio è il rapporto con l'esserci.
Nella logica oggi dominante dell'utile, siamo arrivati al cinismo di dire che l'uomo che non rende è inutile. Dunque, anche Dio, che non rende dal punto di vista monetabile, è inutile. Dio, infatti, rettamente inteso e amato, non rende nulla; anzi, non deve rendere nulla, Dio non si può trasformare in moneta.
Dire che Dio è inutile, è molto peggio del dire che Dio non c'è, perché l'ateismo è sempre l'ammissione dell'importanza di Dio. E quando una cosa è inutile la si butta nel cassonetto, la si dimentica completamente. Quindi nel contesto in cui noi stiamo vivendo è forte questa influenza portata dalle ideologie dell'imperialismo economico.
Se Dio è inutile, l'essenza dell'esistenza va anche lei nel cassonetto, perché non c'è bisogno che l'esistenza abbia un'essenza profonda, ci si accontenta di altro. Questa ideologia del minimo non è altro che l'antico prendi l'attimo, perché il resto passa, è l'esistenza dell'attimo, attimo non inteso solo come il momento cronologico, ma come il prendere quello che ti dà e dunque non farti dei sogni. Il degrado dell'esperienza dell'amore, per esempio, segna molto chiaramente questa involuzione della nostra esperienza della vita: non pretendere che duri un'ora o una vita intera, stai attento a prendere tutto quello che l'attimo ti regala.
I cristiani, che sono persuasi che l'essenza della vita c'è, per aiutare gli altri devono essere molto attenti innanzi tutto a non lasciarsi influenzare dal clima dell'attimo.

Il grido di Isaia deve diventare sempre più importante, perché è un dialogo con Dio. Cosa fa importante un dialogo, cosa lo distingue da una chiacchierata, da un colloquio? Ci sono alcuni elementi. Intanto con chi dialoghi, dunque il tuo interlocutore. Secondo, il contenuto di ciò che si dice. Terzo, la passione che ci mettiamo tutti e due. Un dialogo è un grande dialogo quando il tuo interlocutore è grande, quando l'argomento è grande e quando il coinvolgimento di tutti e due è grande. Isaia ci dice che il dialogo più importante che puoi avere è quello con Dio. Trovi un interlocutore più grande? Trovi contenuti più importanti della tua vita, del tuo dolore, delle tue speranze? La questione è metterci il cuore, e c'è la grande consolazione di sapere che Dio il cuore ce lo mette tutto. Non sarà mai uno che, mentre ascolta me, ascolta un altro o fa una telefonata. La questione rimango io: quanto cuore ci metto nel parlare delle cose essenziali con questo immenso interlocutore che mi sta ascoltando con tutto il cuore, da Padre?
La risposta sincera a queste domande ci spiega il motivo per cui qualche volta ci sentiamo un po' vuoti: ci manca il dialogo essenziale.

Non è tanto facile conservare il senso dell'andare a Dio mentre si vivono cose che spesso sono attanaglianti, perché ci angosciano, ci prendono oppure ci inebriano.
Di fronte ad un fatto qualsiasi della vita che riterremmo casuale o addirittura una vera disgrazia, una cosa che non doveva assolutamente succedere, la nostra ragione si ferma presto e si blocca, la nostra fede ci fa andare oltre: un senso c'è perché Dio c'è: non lo vedo, credo, mi affido.

Dunque è importante questo senso di essenza del rapporto con Dio, di grido a lui che dovrebbe essere continuo. I cristiani oggi guardandosi attorno, vedendo le cose come vanno, dovrebbero portare questa loro supplica nel cuore ovunque vadano negli spazi della propria civiltà. E Dio dà molta importanza e ascolta volentieri questa supplica. Se qualche figlio lo supplica, lui fa cadere la sua benedizione a pioggia anche su chi non lo supplica.

Giuseppe Pollano
tratto da un incontro all’Arsenale della Pace
testo non rivisto dall'autore

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok