Il potere dell’io

Pubblicato il 17-08-2018

di Gabriella Delpero

di Gabriella Delpero - Genitori alle prese con il disagio dei figli.
Mi è capitato più volte di dovermi occupare di bambini in età scolare segnalati per la comparsa di sintomi piuttosto generici, come pianti prolungati senza ragioni valide, lamentele relative a malesseri fisici molto vaghi (frequenti mal di testa, dolori alle articolazioni, senso di oppressione al petto, mancanza d’aria, stanchezza cronica, disturbi del sonno…), calo di interesse per gli amici, rinuncia all'attività sportiva e al gioco e comparsa di paure di ogni genere.

Esclusa con scrupolo la presenza di qualsiasi disturbo o malattia fisica, non resta che pensare ad uno stato di malessere generalizzato di origine sconosciuta o almeno dubbia, visto che quasi tutti gli adulti che vivono col bambino dichiarano di non avere la più pallida idea di cosa stia succedendo e negano l’esistenza di qualsiasi recente avvenimento negativo che possa almeno in parte spiegare tanto disagio.
Sappiamo che la salute di una persona viene sempre più considerata come una condizione di soddisfazione e di benessere, in linea con la nuova definizione del concetto di salute formulata nel 1946 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità come «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non pura assenza di malattia o di infermità ».

Di conseguenza la condizione di questi bambini viene spesso descritta come una mancanza di felicità, di sicurezza o di gusto per ciò che si fa, indicando il «non sentirsi bene con se stessi» come segnale evidente di salute precaria. E i rimedi che di solito vengono immaginati dai genitori riguardano comportamenti tesi a suscitare emozioni positive, attività orientate al piacere personale, rivendicazione di desideri e diritti, esclusione di tutto ciò che può ostacolare le esigenze e il tornaconto immediato, abolizione di ogni genere di impegno e di fatica. In una parola, soggettività individuale in primo piano fi n dalla più tenera età. Il bambino educato a sottostare al potere assoluto dell’Io. Ma la persona umana per sua natura è relazionale, è irrimediabilmente legata agli altri. Tutti viviamo grazie alle relazioni sociali e affettive.

E se allora fosse proprio il declino del “noi” a stare alla base del sempre più diffuso male di vivere?
Scrive Edgar Morin: «Questo noi, non meno innato dell’io, appare fin dalla nascita: Vivere è un movimento permanente in cui passiamo dall'io al noi e dal noi all'io, con estremi in cui l’io è capace di sacrificarsi per il noi, per difendere i suoi, il suo Paese, le sue opinioni politiche, la sua religione, con gli estremi opposti in cui il noi è sacrificato, in cui gli altri sono dimenticati o abbandonati a vantaggio dell’interesse vitale o materiale dell’io» (E. Morin, 7 lezioni sul pensiero globale). Mi pare che oggi la nostra società, e quindi le nostre famiglie, siano più sbilanciate verso il secondo opposto, quello in cui prevale l’idolatria dell’Io. Il problema è che quest’ultimo – da solo – non è in grado di dare un senso alla ricerca individuale di significato, di felicità. E probabilmente non è in grado neppure di garantire ai nostri bambini e ragazzi quello slancio istintivo, quella curiosità insaziabile, quell'allegria contagiosa e quella passione per la vita che dovrebbero caratterizzare le ore e i giorni della loro esistenza.

Osserva il pedagogo Haim Ginott: «La felicità non è una meta, bensì una sorta di viaggio. La felicità non è fine a se stessa. È un sottoprodotto del lavoro, del gioco, dell’amore e della vita. La vita esige necessariamente un’attesa tra desiderio e appagamento, tra un piano e la sua realizzazione. In altre parole: la vita comporta la frustrazione ed esige la capacità di reggerla».

Gabriella Delpero
PSICHE
Rubrica di NUOVO PROGETTO

 

 

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