Il metodo della restituzione
Pubblicato il 28-03-2025
La prima volta che ho incontrato il Sermig era il 22 marzo 1972. La scuola che frequentavo aveva portato noi studenti ad ascoltare la testimonianza di Raoul Follereau, un medico francese che girava il mondo con uno slogan: «datemi l’equivalente in denaro di un cacciabombardiere e debelleremo la piaga della lebbra in Africa». Quella sera nel teatro Valdocco di Torino gremito sentii parlare per la prima volta di “giornata lavorativa”: donare l’equivalente in denaro di una giornata di lavoro per i progetti di sviluppo. Quella sera la proposta della giornata lavorativa aveva segnato una svolta nel percorso del Sermig proprio perché interpellava ognuno in modo diretto e continuativo: quanto vale una giornata del tuo lavoro? Cosa puoi mettere in gioco se sei giovane, se sei studente? Ognuno poteva fare una riflessione e decidere nel suo cuore quanto condividere, non in modo episodico ma mensilmente, con continuità.
Ricordo che fui molto colpita dalla proposta e tornata a casa, la sera, compilai la mia adesione. Avevo 14 anni e avevo voglia di cambiare il mondo, avevo voglia di partecipare a qualcosa che potesse lasciare il segno nella storia degli uomini. Quella proposta mi aveva toccato e in quei mesi cominciai a frequentare i giovani del Sermig e a partecipare alle loro attività. Qualche anno dopo, da quell'intuizione si è sviluppata la restituzione.
Ricordo una sera in particolare in cui Ernesto disse: «Da stasera a ogni incontro facciamo qualcosa per ricordarci dei poveri, facciamo passare un sacchetto tra le nostre mani e restituiamo qualcosa. Ai poveri non si possono dare i nostri scarti. Hanno diritto alla loro dignità. Come potremmo chiamare questo gesto?». Fu una proposta accolta da tutti e colpì la parola “restituzione” che non avevamo mai sentito pronunciata in un contesto dove di solito le parole usate erano elemosina, offerta, carità… Piacque a tutti e da quella sera proponemmo quel gesto ogni settimana. Una ragazza cucì un sacchetto di iuta dedicato che passava tra le nostre mani. Nelle settimane successive proponemmo il medesimo gesto a tutti i gruppi che si ispiravano al Sermig e, in poco tempo, insieme alla preghiera, il gesto della restituzione divenne il punto centrale di ogni nostro appuntamento: ci davamo un pensiero e facevamo passare il sacchetto di iuta di mano in mano, in silenzio e ognuno infilava nel sacchetto ciò che decideva nel suo cuore. Molti non ci mettevano nulla, ma in quel momento pensavano, si interrogavano. Cominciando a circolare questa parola tra noi e nei nostri incontri qualcuno ci contestava: perché restituzione? Restituiscono i ladri che hanno rubato, noi non abbiamo rubato…
Queste domande ci spingevano ad approfondire le idee che quel gesto sottintendeva e che cercavamo sempre più di esplicitare, per diventarne più consapevoli, convinti e convincenti. Così scoprimmo anche che quel concetto era già presente nella vita dei cristiani dei primi secoli (At 4,32-35) e nella predicazione dei Padri della Chiesa che mettevano in luce come non fosse dal nostro avere che facevamo dono al povero, ma dal restituirgli ciò che Dio ci aveva donato. La restituzione è diventata in poco tempo un elemento identificativo del nostro pensiero. Ha iniziato a cambiare radicalmente la vita di molti di noi, a scavare in profondità nelle coscienze, a produrre cambiamenti e decisioni: tempo donato, capacità e competenze messe a disposizione, beni materiali condivisi, ma anche restituzione di preghiera e di sofferenze per tanti ammalati, anziani che hanno dato un senso alla loro fragilità. L’Arsenale della Pace e tutte le opere realizzate hanno avuto origine nella restituzione. È diventato un metodo, l’appuntamento quotidiano con noi stessi, con la nostra comunità, con i più poveri per diventare fratelli di tutti.
Rosanna Tabasso
NP dicembre 2024