Il grande freddo

Pubblicato il 15-01-2019

di Claudio Monge

di Claudio Monge - Quando il 16 giugno 2017, nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo dei domenicani a Galata (sul cui territorio parrocchiale è formalmente ubicato anche il patriarcato greco-ortodosso del Fanar) con un’intensa e partecipata preghiera ecumenica, affidammo all’azione dello Spirito il grande Sinodo pan-ortodosso, tenutosi di lì a poco a Creta (tra il 20 e il 26 giugno 2017), era già palpabile la crescente tensione tra Costantinopoli e Mosca, dopo la clamorosa decisione della Terza Roma di rinunciare, all’ultimo momento, alla partecipazione ad una assise per la quale aveva sottoscritto l’agenda, già di per sé assai povera.

L’impressione è che quell’ennesima ferita, inferta soprattutto a Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli e “primus inter- pares” tra i capi delle chiese ortodosse di tutto il mondo, non abbia mai finito di sanguinare e spieghi, almeno in parte, l’attuale crisi in corso, a seguito della spinosa questione della concessione o meno dell’autocefalia alla Chiesa ortodossa d’Ucraina. In estrema sintesi, l’Ucraina, dal punto di vista ecclesiastico, è un esarcato legato al Patriarcato di Mosca. Ma nel 1991 – data di proclamazione dell’indipendenza dell’Ucraina e, poi, del collasso dell’Urss – la Chiesa ortodossa del Paese si spacca in tre: la Chiesa ortodossa ucraina (la più numerosa), legata a Mosca, e oggi guidata dal metropolita Onufry; l’autonominatosi Patriarcato di Kiev, guidato dal metropolita Filaret, scomunicato dal patriarcato russo; la piccola Chiesa autocefala. Queste ultime due non riconosciute da nessuna Chiesa ortodossa.

Accanto a questo quadro ecclesiastico, la delicata situazione politica-militare tra Mosca e Kiev, che alimenta una guerra di cui nessuno parla ma che ha fatto, ad oggi, più di diecimila vittime nella zona del Donbass. A questo focolaio di crisi, nel marzo 2014 si aggiunge l’occupazione della Crimea da parte russa, definita “aggressione” dal governo di Kiev, dal “patriarca” Filaret e da Sviatoslav Shevciuk, arcivescovo maggiore dei greco- cattolici (considerati dal patriarcato russo, “traditori” sorti per le pressioni dei re polacco-lituani che volevano usarli come “cavallo di Troia” per distruggere dall’interno l’Ortodossia). Pochi mesi fa, il 9 aprile 2018, il presidente ucraino Poroshenko si reca al Fanar per chiedere il riconoscimento di una Chiesa autocefala ucraina, che raccoglierebbe le tre Chiese ortodosse del Paese; il 19 aprile il parlamento di Kiev appoggia la richiesta. Benché il metropolita Hilarion abbia affermato che la “pretesa” ucraina non ha fondamento canonico, la crisi tra Mosca e Costantinopoli rappresenta in realtà il confronto finale tra due modelli ecclesiologici ben distinti, espressioni di due visioni diametralmente opposte del rapporto delle Chiese con la storia e con il mondo in genere.

Bartolomeo I, leader mai così come oggi messo in discussione, sta facendo di questa sua debolezza una forza spirituale, per promuovere testardamente il sogno di una «svolta cattolica dell’ortodossia». Quest’ultima, non è un attentato alla tradizionale concezione giurisdizionale delle Chiese autocefale, ma un tentativo di superare definitivamente, in chiave sinodale, la visione nazionalista e tradizionalista delle «Chiese etniche» (millet) auto-referenziali, tanto radicata nel Medio Oriente cristiano e ultimo retaggio nostalgico della logica imperiale post-ottomana che la cultura russa neo-zarista tenta di mantenere in vita. Fino a quando le logiche politiche potranno imporsi rischiando di rendere irrilevante quell’annuncio del Vangelo che interroga il presente storico?

Claudio Monge
Levante
Rubrica di NUOVO PROGETTO

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