Il diritto di vivere insieme

Pubblicato il 09-05-2025

di Claudio Monge

Il 19 gennaio 2007, il giornalista armeno Hrant Dink, fondatore nonché caporedattore del quotidiano Agos (Il Solco) di Istanbul, veniva ucciso con un colpo di pistola alla testa, dall’allora diciassettenne Ogün Samast (rilasciato dal carcere nel novembre 2023 con la condizionale per “buona condotta” dopo aver scontato 16 anni e 10 mesi di prigione).

Una grande parte di Agos era scritta in lingua turca, per tenere aggiornati sull’attualità gli armeni turcofoni e creare un ponte culturale tra armeni e turchi. Un’immensa onda emozionale travolse il Paese alla notizia della morte brutale di un uomo noto per le sue posizioni non solo in difesa della causa armena, ma di una indispensabile riconciliazione nazionale della Turchia con le sue molte anime culturali e religiose. Oltre un milione di persone sfilò per le vie di Istanbul brandendo un unico inequivocabile cartello: «Siamo tutti armeni», inequivocabile bocciatura dei contorni del progetto nazionalistico messo in essere fin dai primi mesi della fondazione della Repubblica turca sulle ceneri dell’Impero ottomano, nel 1923. Dink, nel febbraio 2004, per la prima volta, era stato apertamente preso di mira dalla stampa ufficiale, dopo aver sostenuto in un articolo che Sabiha Gökçen, una delle figlie adottive di Atatürk (prima donna pilota turca, alla quale è intitolato l’aeroporto asiatico di Istanbul), era in realtà di origini armene. In effetti, benché un motto della Repubblica di Turchia, coniato dal suo fondatore Mustafa Kemal in persona, dica: Ne mutlu Türküm diyene (Felice colui che può dirsi turco), nessuno in Turchia può affermare di essere un “turco puro”, e questo semplicemente perché non esistono “turchi puri”. Fin dall’inizio, i turchi sono stati presenti in Anatolia insieme a molti altri popoli (curdi, armeni, rum, pomaki, laz, yörük, ebrei, ecc.) la cui esistenza è stata negata dalla politica nazionalista dei governi di Ankara, intenzionati a “turcizzare” l’intera popolazione del Paese, per creare un’identità che non era un lascito possibile di un impero come quello Ottomano, multireligioso e multiculturale per definizione. Non a caso, nel 2006, l’anno precedente al suo assassinio, Hrant Dink fu citato in giudizio in nome del famigerato articolo 301 del codice penale, entrato in vigore nel 2005, riguardante l’offesa all’identità turca. Il pubblico ministero, contrariamente ai giudizi dei periti esperti, aveva deciso che Dink, che in un discorso aveva incoraggiato gli armeni a liberarsi dai veleni dell’odio antiturco, doveva essere condannato a 6 mesi, con la condizionale, per aver sostenuto che il sangue turco era velenoso! Sullo sfondo dell’assurdità di questa sentenza, un distorto discorso su una laicità, distaccata da qualsiasi preoccupazione di garantire la pluralità delle convinzioni religiose, diventata, insieme al nazionalismo, uno strumento di potere del nuovo corso repubblicano.

Il programma, fin dagli anni ’20 del ventesimo secolo era chiaro: legittimare la nazione come musulmana per difetto e perciò stesso turca, integrare l’islam sunnita hanefita come rappresentativo della “turcità” (ignorando anche la diversità intraislamica) e giustificare la gestione diretta della sfera religiosa da parte dello Stato, eliminando qualsiasi autorità interna specifica della sfera religiosa. Da sempre, il nazionalismo era simbolo della vittoria finale della “turcità” sui troppi pretendenti stranieri alla sovranità sull’Anatolia, eredità drasticamente ridotta dell’ormai disciolto Impero ottomano: una società in cui le differenze etniche e religiose sarebbero state d’ora in poi negate per essere superate.

Nel settembre del 2005, intervenendo ad un convegno sulla sorte degli armeni alla fine dell’Impero ottomano, Hrant Dink, ebbe ad affermare che non gli interessava parlare o meno di genocidio, perché sapeva che cosa era successo al suo popolo. Prendendo spunto dalla storia di un’anziana donna armena tornata a casa sua in Anatolia solo per morire, aveva però chiosato: «Dicono che stiamo rivendicando il diritto alla terra dell’Anatolia. Sì, è vero, la rivendichiamo, ma non per impadronircene, ma per essere sepolti in essa». Nessuno allora avrebbe potuto immaginare che queste parole, sarebbero diventate il sottofondo degli eventi celebrativi dedicati alla sua memoria. Dink sognava la nascita di una “turcità” come espressione di convivenza e solidarietà tra tutti i cittadini turchi, nella ricchezza delle loro diverse origini e non come principio di esclusione!


Claudio Monge
NP Febbraio '25

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