Il diavolo e l'acqua santa

Pubblicato il 19-03-2022

di Gabriella Delpero

Continuano ad essere numerosissimi i genitori, gli insegnanti, gli educatori che si pongono (e pongono ai cosiddetti “esperti”) la fatidica domanda/dilemma: sono più preoccupanti le insidie o più promettenti le potenzialità del web?

È vero che internet e i social, con il loro fascino incredibile, ci hanno avvicinato ai lontani e allontanato dai vicini? A sentire molti dei nostri ragazzi si direbbe proprio di no, anzi: oggi per loro i social in genere sono il modo più usato, più rapido e più efficace per mantenere costanti (a volte ininterrotti) contatti con amici e coetanei. Quando chiedo ad un adolescente se ha amici e come fa a trascorrere del tempo con loro, di solito mi risponde che ovviamente “sta sul cellulare” per dialogare, incontrarsi e giocare con gli altri.
Del resto capita a tutti di osservare dei ragazzi che non staccano mai l'attenzione dallo smartphone, sono perennemente “connessi” e sembrano completamente assorbiti e catturati nell'intricato groviglio delle loro comunicazioni virtuali. Capita anche, purtroppo, di conoscere giovanissime vittime di cyberbullismo, quella odiosa forma di bullismo che dà la possibilità ad un gruppo virtuale di prendere in giro pesantemente e senza (quasi) alcun rischio un coetaneo ritenuto “diverso”, e contro il quale si sente il bisogno di scagliare ogni sorta di cattiveria gratuita. Insomma, social sì o social no? Social come straordinari mezzi che ci permettono di comunicare con il mondo e di essere più agili e creativi nelle nostre relazioni o social come potenziali e pericolosi strumenti di isolamento, di sofferenza e di morte?
Figli sempre e comunque favorevoli all'uso indiscriminato dei social e genitori sempre e comunque contrari e critici?

Nel cercare una risposta il punto decisivo è sempre il solito: costruire ponti e non muri, cercare gli elementi di contatto e non quelli di divisione. Il mondo non è tutto bianco o tutto nero, la realtà è molto più complessa e ha tante sfumature. Anche la relazione genitori-figli o adulti-giovani ha molte sfaccettature e diversi toni di colore, non è "tutto giusto" o “tutto sbagliato”. Lo stesso vale per il termine “rete”. Prima possibilità: le reti sono sempre state utilizzate dagli uomini essenzialmente per catturare pesci e cibarsene.
Quindi l'espressione “rimanere impigliati nella rete” per i pesci (e per i nostri ragazzi) significa morte certa.
Nel linguaggio comune del giorno d'oggi, invece, “essere in rete” vuol dire stare in relazione, essere in contatto, fare squadra, creare nuovi legami e conoscenze. Noi tutti facciamo parte di una rete e ciascuno di noi è collocato in uno dei nodi. Le domande allora potrebbero diventare: Con chi ci vogliamo collegare? E soprattutto come? Quanto e a quale scopo?

Anche papa Francesco, nel messaggio per la 53° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, nel 2019 scriveva: «può essere utile tornare a riflettere sulla metafora della rete […] sulla molteplicità dei percorsi e dei nodi che ne assicurano la tenuta, in assenza di un centro, di una struttura di tipo gerarchico di un'organizzazione di tipo verticale. La rete funziona grazie alla compartecipazione di tutti gli elementi». Quindi la rete non è di per sé né il diavolo, né l'acqua santa. È un intreccio di fili che possono funzionare da trappola oppure da collegamento. Sta a noi farne un uso intelligente e responsabile. Possibilmente ricordando che fidarsi di tutti è sbagliato, ma fidarsi di nessuno è impossibile.


Gabriella Delpero
NP dicembre 2021

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