Haiti nella prova

Pubblicato il 04-12-2021

di Lucia Capuzzi



La storia si ripete, la prima volta in farsa, la seconda in tragedia, sosteneva Karl Marx.
Questo agosto afoso e drammatico ha smentito l'affermazione del filosofo tedesco: la storia si sta ripetendo con la medesima tragicità. In Afghanistan, il tempo sembra tornato indietro di vent'anni.
Ad Haiti, il salto è di undici, quando un terremoto di simile intensità ridusse in macerie la capitale, Port-au- Prince, uccidendo 230mila vittime in una manciata di minuti. Il sisma del 14 agosto ha colpito un'area molto meno densamente popolata: l'ovest del Paese.
I morti sono, dunque, molto meno: qualche migliaio, a cui si sommano 12mila feriti, 100mila case distrutte, almeno 600mila colpiti. Per il Paese più povero dell'emisfero occidentale, già allo stremo, si tratta comunque di una catastrofe. Ad amplificarla ulteriormente è il monotono ripetersi, da parte della diplomazia occidentale, del medesimo valzer. Il cui fine, retorica a parte, è tenere il "problema" più lontano possibile dai rispettivi confini. Allora come adesso manca una politica che abbia il respiro ampio di una visione e non il rantolo dell'ultimo sondaggio di opinione o la miopia dei propri immediati interessi.
Haiti, in questo senso, meno mediatica dell'Afghanistan, è forse ancor più eloquente.

All'indomani del 12 gennaio 2020, Bill Clinton, appena nominato commissario speciale per la ricostruzione, fece un'ambiziosa promessa: «Creeremo un domani migliore, ricostruendo Haiti meglio». Build back better divenne il mantra del post-sisma.
La struttura guidata dall'ex presidente e gestita dall'Onu, dai principali Stati donatori e dalle autorità haitiane, raccolse in poco tempo 6,4 miliardi di dollari. Una cifra elevata. Almeno in teoria. L'annunciata ricostruzione non c'è stata. Secondo stime indipendenti, meno del 3 per cento del denaro raccolto è andato a organizzazioni e aziende locali. Il resto, sotto forma di lucrosi contratti d'appalto, è finito alle imprese delle nazioni donatrici. Le loro scelte di investimento appaiono quantomeno bizzarre. Gli Champs de Mars, che ben poco hanno in comune con gli omonimi giardini parigini, nel centro di Port-au-Prince, sono stati abbelliti con chioschi, bistrot e bancarelle di souvenir. La ventilata ripresa del turismo, architrave del progetto di ricostruzione internazionale, non è mai avvenuta. Lo sanno bene i lussuosi Marriott e Best Western spuntati nuovi di zecca a Petion Ville, quartiere residenziale della capitale: il primo è perennemente vuoto, il secondo ha chiuso i battenti il 31 ottobre 2019. Un fallimento annunciato.

Difficile immaginare frotte di visitatori aggirarsi per le strade di Port-au-Prince invase dai rifiuti perché non esiste un sistema nazionale di smaltimento, buie al tramonto per mancanza di corrente e terribilmente insicure, per la presenza di centinaia di gang. Ben poco è stato speso per realizzare le infrastrutture di base.
Per contribuire all'edificazione di un sistema economico, politico e sociale.
A un processo ampio, poco appariscente ma duraturo, è stato preferito un progetto da "vendere" sui media e in grado di garantire un ritorno di immagine immediato, facendo leva sulla smemoratezza globale. La corruzione locale ha fatto il resto: un dramma ampiamente conosciuto su cui la comunità internazionale si era impegnata a vigilare. Evidentemente, però, non l'ha fatto.

Il Paese, alla fine, è rimasto in macerie, come dimostra la crisi in atto prima del sisma. Il presidente Jovenal Moïse è stato assassinato il 7 luglio scorso. L'omicidio è arrivato al termine di un estenuante braccio di ferro tra il governo e l'opposizione, che non ne ha mai riconosciuto la legittimità. Il conflitto, durato oltre quattro anni, ha paralizzato le istituzioni. Nel frattempo le bande – mafie dei poveri ma ben armate – si sono moltiplicate. Tanto che, all'indomani del nuovo terremoto, l'Onu ha dovuto negoziare con loro il "passaggio sicuro" dei convogli con i soccorsi. Dallo scorso gennaio, i sequestri si erano fatti quotidiani. Il mondo, però, non si era accorto della situazione.
Nemmeno l'uccisione di Moïse è riuscita a destarne l'attenzione.

Tornata nel cono d'ombra della politica internazionale, Haiti ha dovuto subire un nuovo terremoto per esserne strappata.
Come in un flashback, la comunità internazionale – Washington per prima – s'è lanciata in enfatiche promesse. Se, ancora una volta, si tratterà di parole vuote o se finalmente il mondo si farà carico di un Paese che ha tanto contribuito a devastare – se ci sarà «interesse partecipe», come ha chiesto papa Francesco al termine dell'Angelus – lo dirà solo il tempo.


info: Haiti, Paese dell'America centrale situato nel mar dei Caraibi, più di 10 milioni di abitanti, è fra i Paesi più poveri e meno sviluppati del mondo intero. Negli anni è stato colpito da numerose calamità naturali, tra cui il devastante terremoto del gennaio 2010.

#sunto: Poco è cambiato rispetto ad undici anni fa. Il terremoto ha nuovamente collocato al centro dell'attenzione internazionale Haiti, un Paese che continua ad essere afflitto da una povertà e da conflitti interni. Non bastano più le promesse, ma occorre un piano di rilancio.


Lucia Capuzzi
NP agosto / settembre 2021

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