Frate'
Pubblicato il 28-11-2024
Frate’ si chiamano tra loro i ragazzi, o bro, dall’inglese brother. Anche i mafiosi fanno lo stesso, e il più educato “fratello” è usato in certo associazionismo segreto di tipo massonico per solidarizzare in traffici che è meglio tenere nascosti.
Sembra un’ossessione dell’umanità l’idea della Fratellanza, proprio perché tanto difficile da realizzare. Non a caso la Bibbia si apre con l’omicidio di un fratello e insiste sulla competizione-odio tra fratelli: Caino-Abele, Esaù-Giacobbe, Ismaele-Isacco, Giuseppe e i suoi fratelli. La violenza primaria, dice rab Jonathan Sacks, viene dalla rivalità tra fratelli, dal desiderio di avere ciò che l’altro ha. Ma la Genesi racconta che, se la rivalità fraterna può essere naturale, non è inevitabile. E indica un cammino. Caino è un assassino. Ma Isacco e Ismaele si ritrovano insieme sulla tomba del padre. Esaù e Giacobbe si abbracciano e prendono strade diverse. Giuseppe e i fratelli poi fanno un reale percorso di perdono e riconciliazione: Giuda, messo da Giuseppe nella stessa situazione in cui un tempo lo aveva sacrificato, ora è disposto a rinunciare alla sua libertà purché il fratello Beniamino non sia fatto schiavo.
Cambiare si può.
Si può ed è il senso della vita, dice Gesù: riconoscersi figli di un unico Padre e tutti fratelli, al di là del sangue e dell’appartenenza familiare. Dopo la sua risurrezione i cristiani hanno cercato di capire come vivere da fratelli come voleva lui. Il monachesimo cenobitico è nato così, nelle sue diverse sfumature. Basilio di Cesarea è stato tra i primi a cercare la strada per realizzare la fraternità. Nelle sue comunità di Cappadocia non c’è nessun abate. Il capo è solo Cristo. Il proestós, il priore, ha solo la funzione di discernere se il Vangelo si incarna nella vita della comunità. Può farlo perché medita giorno e notte le Scritture, ama con affetto materno i fratelli, è attento a provvedere ai bisogni di tutti come medico e come servo di tutti.
«Non è possibile stabilire un’identica regola per tutti», scrive Basilio. «l’unico fine comune a tutti sia la soddisfazione dei bisogni»: cioè la prima giustizia che costruisce la fraternità è la condivisione dei beni, come nella prima comunità di Gerusalemme. Assicurata quella, tutti devono considerarsi ultimi e servi di tutti, e ricordare che l’obbedienza ai fratelli è sottomissione alla parola di Dio. La premessa indispensabile è la lotta contro la volontà propria «cicatrice e lebbra che deturpa il comandamento». Infatti «la temperanza non è l’astensione dai cibi materiali, ma la completa astensione dalla propria volontà, che ci fa estranei alla vita cristiana». Chi in comunità rivendica la propria volontà rivela «fede malata, speranza vacillante, carattere orgoglioso e superbo» e non si vede perché debba restarci. Vada a vivere da solo: poi però, «come potrà realizzare nella vita solitaria la bellezza e la gioia di abitare insieme tra fratelli, gioia che lo Spirito Santo paragona al profumo che emana dalla testa del sommo sacerdote?». La vita comune richiede una continua misericordia reciproca: il suo cancro è la adiaphoría, la mancanza di sensibilità verso i fratelli e quindi verso Dio. Ma il perdono e la riconciliazione tra fratelli sono sempre possibili, come è stato per Giuseppe e Giuda: la Bibbia è la storia della fede di Dio negli uomini, creati liberi di vivere da fratelli. In pace.
Flaminia Morandi
NP agosto/settembre2024