Fragile giustizia

Pubblicato il 18-09-2024

di Edoardo Greppi

Nello scorso mese di maggio, due importanti tribunali internazionali hanno adottato decisioni relative alla terribile guerra mediorientale tra Israele e Hamas. Le due Corti sono organi differenti e dotati di competenze molto diverse, ma esprimono importanti istanze di giustizia nella comunità internazionale. Vengono spesso confuse, anche perché entrambe hanno sede all’Aja, città da molto tempo sede dei più importanti organi della giustizia internazionale.

Il 20 maggio 2024 il Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan ha presentato una richiesta di emissione di mandati di arresto di alcune persone: il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della difesa Yoav Gallant (per attacchi intenzionali contro civili e beni civili, oltre che al personale, ai veicoli e alle strutture di personale impegnato nell’assistenza umanitaria, per avere affamato la popolazione e altri crimini di guerra e contro l’umanità), e tre alti dirigenti di Hamas, Yahya Sinwar, Mohammed Diab Ibrahim Al-Masri e Ismail Haniyeh, con l’accusa di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità (per le violenze commesse nel corso dell’attacco del 7 ottobre e la successiva presa di ostaggi civili, le torture e violenze, anche di natura sessuale nei confronti dei prigionieri durante la loro permanenza nelle mani dei miliziani islamisti della Striscia, e altri crimini di guerra e contro l’umanità).

Una Camera preliminare della Corte è ora chiamata a decidere sulle richieste del Procuratore. Potrebbe respingerle, accoglierle tutte, oppure accoglierne soltanto alcune. Nel caso di totale o parziale accoglimento, la Corte emetterebbe mandati di arresto nei confronti degli accusati.

La Corte penale internazionale, istituita con lo Statuto di Roma del 17 luglio 1998, non giudica il comportamento degli Stati, bensì quello degli individui accusati di avere compiuto crimini di diritto internazionale (genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, e il crimine di aggressione), per i quali sono penalmente responsabili «secondo il diritto internazionale».

La Corte internazionale di giustizia, l’organo giudiziario dell’ONU che è chiamato invece a dare soluzione alle controversie tra Stati, il 24 maggio ha adottato una nuova decisione nella causa avviata dal Sudafrica contro lo Stato di Israele. Già il 28 marzo la Corte aveva (con decisione unanime) ordinato allo Stato di Israele di rispettare gli obblighi derivanti dalla convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio e, in particolare, garantire i servizi essenziali e l’assistenza umanitaria – cibo, acqua, energia elettrica, combustibili, rifugi, vestiario, igiene e sanità, come anche forniture e cure mediche ai palestinesi di Gaza. Inoltre, la Corte ha ordinato di non compiere atti che costituiscano violazione dei diritti dei palestinesi di Gaza come “gruppo protetto” ai sensi della stessa convenzione.

La Corte ha poi ordinato il 24 maggio a Israele di sospendere le azioni militari a Rafah, che potrebbero infliggere condizioni di vita tali da portare alla distruzione fisica “del gruppo”, cioè dei palestinesi. La formulazione della decisione sembra indicare la scelta di dare a Israele un avvertimento: la Corte non ha ancora deciso nel merito se si sia in presenza di un genocidio. Il governo israeliano, quindi, deve stare attento a non porre in essere atti che un domani possano essere intesi come genocidari. Per quanto riguarda la questione del merito – cioè se si tratti del crimine di genocidio – è prevedibile che occorra attendere uno o due anni la sentenza della Corte. Intanto, la Corte insiste nel chiedere l’adozione di misure provvisorie, finalizzate essenzialmente a far cessare le massicce uccisioni e tutte le altre gravi violazioni delle norme del diritto internazionale umanitario. Rispetto a queste sarà la Corte penale internazionale ad avere la competenza di giudicare e punire gli individui autori.

Si può ora constatare che una delle parti in conflitto – lo Stato d’Israele – è destinataria di obblighi che non rispetta, e sul piano politico è “coperta” in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite da un membro permanente con diritto di veto, gli Stati Uniti. L’altra parte, Hamas, non è uno Stato e non è nemmeno riconducile all’entità che la comunità internazionale e l’ONU riconoscono, l’Autorità nazionale palestinese (anp). Tra l’altro, questa è tutt’altro che un’autorità nel senso pieno e giuridicamente corretto del termine. L’anp non è membro dell’ONU e, quindi, non è tenuta a rispettare le decisioni della Corte internazionale di giustizia. Per altro verso, l’anp è parte dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, ma non controlla Hamas che, invece, controlla la Striscia di Gaza, il territorio sul quale alcuni crimini sono commessi, compresi quelli per i quali sono potenzialmente incriminati anche tre suoi alti dirigenti politici e militari. Analogamente, i vertici israeliani sono irraggiungibili perché il governo Netanyahu non ha alcuna intenzione di cooperare con la Corte penale internazionale e, anzi, ne contesta l’autorità.

Il sistema giurisdizionale internazionale ed entrambe le Corti dell’Aja si fondano su un impegno degli Stati a dare la loro piena cooperazione. Purtroppo nessuna delle parti è disponibile a darla, e questo non fa bene sperare per il futuro della giustizia internazionale.

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