Dire la verità

Pubblicato il 13-05-2025

di Renato Bonomo

Nel maggio del 1986 frequentavo la quarta elementare e fui molto contento di non poter consumare l’insalata né a scuola né a casa. In quel periodo, infatti, non avevo nessun interesse per gli ortaggi . La maestra Enrica e i miei genitori mi avevano spiegato che a causa di piogge radioattive le verdure degli orti erano contaminate. Allora non sapevo nulla di fisica nucleare (e continuo a non saperne molto), ma, pur non conoscendo le cause, l’effetto non mi dispiaceva affatto. Mi accorsi presto però che c’erano ben altre e più terribili conseguenze di cui stavo venendo a conoscenza. In provincia di Torino e in molte altre parti d’Italia, cominciarono ad arrivare bambini bielorussi in cerca di scampo dalla radioattività. Conobbi così il nome di una località mai sentita prima, Černobyl'. Quasi nessuno prima del 26 aprile del 1986 era a conoscenza della località della centrale nucleare a 40 km da Kiev, al confine con la Bielorussia. Durante una simulazione di un guasto, si verificò un vero surriscaldamento delle barre di uranio del reattore quattro che provocò la fusione del nucleo, due esplosioni e la fuoriuscita di grandi quantità di vapore radioattivo. Con le prime esplosioni morirono 31 persone, ma era solol’inizio di un incubo che avrebbe coinvolto scienziati, personale della centrale, pompieri, militari e, persino, migliaia di operai, chiamati a spalare sabbia a base di boro, silicati, dolomia e piombo sul nucleo fuso per fermare i vapori radioattivi. Oltre 400 minatori del Donets’k furono chiamati a scavare un tunnel sotto la centrale per veicolare azoto liquido e isolare così il materiale radioattivo che stava penetrando nelle falde acquifere. Un lavoro che si rivelò mortale per quasi tutti i soccorritori, costretti a lavorare senza appositi dispositivi di protezione. In tantissimi nei giorni e nelle settimane successive si ammalarono per mettere in sicurezza la centrale. Le zone intorno alla centrale furono evacuate per oltre 30 km, più di 350mila persone furono costrette a lasciare le loro case (compresi gli abitanti della vicina cittadina di Pripjat’, nata appositamente per accogliere le famiglie dei lavoratori di Černobyl', in tutto oltre 45mila persone).

Il regime sovietico cercò di tacere al Paese e al mondo intero l’accaduto, ma le segnalazioni di intensa radioattività registrate in alcuni Paesi europei costrinsero Gorbačëv a dichiarare all’opinione pubblica quanto accaduto. Secondo molti storici la catastrofe di Černobyl' ha avuto un significato enorme non solo a livello ambientale, ma anche politico perché “costrinse” l’URSS a intraprendere con decisione la strada della glasnost (trasparenza) e mostrò in maniera evidente l’arretratezza strutturale che caratterizzava l’apparato energetico e industriale sovietico. Dopo molti anni, lo stesso Gorbačëv arrivò a dire che «la tragedia di Černobyl' è stata il segno della fine dell’Unione Sovietica».

Tra le storie che si intrecciano alla grande tragedia di Černobyl', sicuramente quella di Valerij Legasov (1936-1988) è tra le più interessanti. Legasov era nel 1986 primo vicedirettore dell'Istituto Kurčatov di Energia Atomica e fu incaricato dal governo di intervenire per mettere in sicurezza la centrale. Fu tra i primi a promuovere l’evacuazione totale dell’area; coordinò le azioni necessarie per bloccare la diffusione più acuta delle radiazioni; rimase per diverso tempo sul posto per coordinare i lavori assorbendo così dosi letali di radiazioni. Ma il suo contributo forse più importante fu quello di voler comunicare all’esterno quanto accaduto, denunciando le carenze strutturali e le responsabilità umane e politiche del disastro. Per questo motivo fu messo ai margini del mondo sovietico. Prima di uccidersi nel 1988 registrò delle audiocassette in cui disse tutto quello che gli era stato proibito di dichiarare. Un atto d’accusa contro le responsabilità dei politici sovietici che è tuttora un monito per (ri)svegliare le coscienze sulla gestione dell’energia nucleare.


Renato Bonomo
NP Febbraio 2025

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