Dalla parte giusta

Pubblicato il 25-07-2020

di Matteo Spicuglia

La storia incredibile del Morbo K. Quando il bene vince...

Una malattia terribile come i sintomi: nel pri­mo stadio, convulsioni ed episodi di demenza, poi una fase degenera­tiva con la paralisi degli arti e infine la morte. Il morbo K si diffuse in pochi giorni a Roma, nell’autunno del 1943. Dal ghetto ebraico fino all’isola Tibe­rina, quel concentrato di storia che avvolge la basilica di San Bartolomeo all’Isola e il Fatebenefratelli. Fu pro­prio questo ospedale ad accogliere i primi malati: molti ebrei e diversi po­lacchi affidati alle cure del primario Giovanni Borromeo e di un giovane volontario, ancora studente, Adriano Ossicini. Erano loro a interfacciarsi con il mon­do di fuori, a dare informazioni su quella malattia mai vista, ma soprat­tutto contagiosissima. Una vera iat­tura, quasi un accanimento in quei mesi di disperazione. Come se non fossero bastate l’occupazione tedesca, il rastrellamento di ottobre e la de­portazione degli ebrei verso i campi di sterminio, la fame e le privazioni della guerra. No, pure quel virus misterioso. La notizia arrivò anche alle SS che tut­tavia si resero conto della gravità della situazione solo quando si presentaro­no al Fatebenefratelli. Sapevano del ricovero di molti ebrei e gli ordini dall’alto erano chiari: malati o sani, la soluzione finale non avrebbe previsto eccezioni. Deportazione o morte. Giovanni Borromeo non si perse di coraggio. Era un medico credibile e conosceva molto bene il tedesco. Ai soldati si limitò a spiegare con dovi­zia di particolari quanto fosse grave il morbo K. Uomo avvisato, mezzo sal­vato. Come a dire: questo è lo stato di cose, se volete entrare, lo farete a vo­stro rischio e pericolo. Nessuna SS chiaramente decise di farlo e i ricoverati evitarono così i campi di concentramento. Al Fatebe­nefratelli, le cure continuarono senza sosta. Qualche paziente moriva, altri arrivavano, altri ancora superavano la prova dopo settimane di ricovero. La casistica di ogni malattia. Per fortu­na, i medici riuscirono a tenere sotto controllo l’epidemia e alla fine della primavera la malattia regredì da sola. Proprio in concomitanza con la libe­razione di Roma avvenuta tra il 4 e il 5 giugno 1944.

Anche il Fatebenefratelli aveva vinto la sua battaglia. Prima i medici non potevano dirlo, adesso sì. Il morbo K in realtà era stato un’invenzione ge­niale di Borromeo e del giovane Os­sicini con il sostegno incondizionato dell’allora priore polacco fra Maurizio Bialek. Una malattia inesistente ideata per salvare vite facendosi beffa degli aguzzini. K non era altro che l’iniziale degli ufficiali nazisti Kesselring e Kap­pler, così gli effetti terribili del morbo, un deterrente per sigillare il reparto e non far entrare nessuno.

In poche settimane, decine e decine di cartelle cliniche, false come i certi­ficati di morte che permettevano agli ebrei di cambiare identità e avere sal­va la vita. Non solo, negli scantinati dell’ospedale venne installata una ra­dio clandestina, in continuo contatto con i partigiani laziali. Tutto di nasco­sto, grazie al coraggio di un pugno di medici e di religiosi che curarono ogni dettaglio, senza paura di essere de­nunciati o scoperti. Nel caso, per loro ci sarebbe stata la morte certa. La storia del morbo K è rimasta na­scosta per molto tempo. Tornata alla ribalta solo qualche anno fa quando il Fatebenefratelli è stato insignito dal­la Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg del titolo di “Casa di vita”. Gli stessi protagonisti non ne vollero parlare, quasi a schermirsi. Adriano Ossicini una volta si limitò a dire una frase che senza retorica esprime un mondo. Di ideali, di bene, di impegno sconfinato. Disse semplicemente: «Bi­sogna sempre cercare di essere dalla parte giusta».

Matteo Spicuglia
NP maggio 2020

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