Cronache da Kiev

Pubblicato il 11-09-2022

di Marco Maccarelli

Il viaggio da Ivano- Frankivs'k a Kiev è lunghissimo: oltre 13 ore. Una nuova tappa della missione Cicogna per far arrivare gli aiuti umanitari preparati in Italia lì dove serve.
Questa volta saremo scortati da tre militari. Pensiamo già a Bucha, a Irpin, ai paesi che dovremo raggiungere. Ma ci sono anche villaggi che versano in condizioni peggiori. I militari ci fanno capire che avrebbe senso andare anche lì. Accettiamo la sfida. D’altronde, siamo qui per servire.
Quando entriamo nella regione di Kiev il paesaggio cambia completamente. Iniziamo a vedere i primi segni dei bombardamenti.
Cala il silenzio, la radio si ferma. Andiamo avanti in autostrada con gli occhi sbarrati su quello che vediamo: capannoni inceneriti, buche enormi, ovunque le tracce di carri armati sull’asfalto.
Alcuni sono stati bombardati e ci sono pezzi di lamiera ovunque, un po’ più in là pezzi di auto, stracci di vestiti, pezzi di divisa militare tolti a chissà chi, auto civili a bordo strada completamente crivellate dai colpi del fuoco dell’artiglieria.
A un certo punto la scorta accosta.
Nazirii ci dice alla radio di fermarci. Accostiamo: davanti a noi un carro armato russo completamente carbonizzato a bordo strada.
«Venite facciamo delle foto», grida Nazarii con un tono che sa più di ordine. Ci avviciniamo al carro armato con cautela. Sopra una grande “V” e una scritta sul cannone frontale “wolverines!” (è il nome della resistenza ucraina ispirata al famoso film Red Dawn del 1984).
Il silenzio pervade l’atmosfera, quella distruzione ci entra dentro come un messaggio chiaro e forte. Prendo la bandiera della pace e la appoggio sopra quel mucchio di lamiere quasi a battezzarle a vita nuova.

Davanti a scene così puoi solo pregare, pregare che Dio entri in quei luoghi di morte e ci porti la sua resurrezione.
Risaliamo in macchina, Kiev ci si para davanti con la sua imponenza immersa in un cielo grigissimo. A destra e sinistra la solita distruzione, una serie di edifici bombardati.
Una linea nera precisa, netta, mostra il punto in cui è arrivato l’aereo sparando e dove ha smesso. Per strada tanta gente che pulisce, raccoglie ciò che resta di questa follia. Entriamo a Kiev. Non riesco a contare il numero dei checkpoint e dei controlli che abbiamo superato.
Pasha (pastore della Chiesa riformata) ci aspetta a Motovylivka (un villaggio appena fuori Kiev). Arriviamo da lui alle 20.59. Alle 21.00 scatta il coprifuoco.Veniamo accolti da diverse persone, tutte rifugiate. Ci abbracciamo, ringraziando Dio di essere salvi. Ci accompagnano in una struttura dove dormire e mangiare qualcosa. Gli ucraini sono molto ospitali e amano fare le cose per bene.
La mattina arriva presto. La prima destinazione è Irpin.
Per poterci arrivare passiamo all'interno di Kiev. La città ci accoglie all'alba nella sua imponenza e con tutte le tracce di una guerra in corso: i giardini pubblici trasformati in trincee, gli ingressi delle vie, i monumenti nascosti dietro le muraglie di sacchi di sabbia e cavalli di frisia dai cui spuntano i kalashnikov delle milizie sia civili che militari.
Passiamo i controlli. Siamo a Irpin. Macchine, carri armati, macerie, lamiere… repeat. Questa d’ora in poi sarà la litania che ci accompagnerà. Arriviamo alla chiesa riformata di Irpin.
A fianco a noi diversi palazzi ancora in piedi ma completamente carbonizzati. Gli edifici che non sono stati toccati dai bombardamenti hanno comunque tutti gli infissi spaccati dalle onde d’urto delle bombe. All'interno del giardino della Chiesa riformata ci sono cumuli di macchine carbonizzate e crivellate.
«Su questa macchina c’erano solo famiglie che stavano scappando», dice Irina, moglie di Pasha. «Che bisogno c'era di sparare a una macchina familiare carica di valigie, con la bandiera bianca legata allo specchietto che sta scappando?». Irina mi guarda e fa spallucce con gli occhi tristi. «Pochi giorni fa hanno sparato a 12 persone che erano in coda per il pane».
Il nonsenso di questa guerra nel 2022 prende sempre più forma. Mentre mi aggiro tra le lamiere un pugno di volontari sta spazzando i vetri dalla strada affinché nessuno si faccia male.

Uno di loro mi si avvicina e mi viene incontro.
Si chiama Olga. Parla un po’ italiano perché nella sua vita è stata una mediatrice di spagnolo. In mano ha con sé due scatole di amoxicillina che abbiamo portato noi. Sorride, inizia a raccontarmi quello che ha visto, che ha vissuto. «Ho sempre abitato a Kiev. Ho passato la vita a fare da mediatrice in spagnolo e ho sempre viaggiato così tanto che giunta alla pensione avevo deciso di trasferirmi a Irpin per fare una vita tranquilla con i miei due gatti. Irpin era una città bellissima, fornita di tutto, qui si faceva una vita comoda, tanto che molte famiglie giovani con i bambini si sono trasferite qui da Kiev. Poi all’improvviso è scoppiato il finimondo. Siamo rimasti nei bunker durante tutto l’assedio. Abbiamo visto cose che non riusciamo neanche a raccontare. Bombardavano continuamente e non riuscivamo a credere cosa stesse capitando. Chi ha potuto è scappato.
Sai cosa vuol dire rinunciare a tutto ciò che si è costruito in una vita e dover scappare?».
Rimango in silenzio. Dico che siamo insieme e che non li lasceremo.
Saluto Olga, i militari sono arrivati per portarci, attraverso Bucha e Hostomel, a Dymer dove conse-gneremo gli aiuti.

Appena usciamo da Irpin, entriamo a Bucha. Tutti oramai sappiamo cosa è successo lì.
Non bastano le parole a descrivere il livello di distruzione che abbiamo trovato.
A un certo punto davanti a una casa una buca rettangolare ci fa capire con molta probabilità che da lì sono stati esumati dei corpi.
La nostra preghiera continua. Appena finita Bucha passiamo per Hostomel': stessa scena.
A destra e sinistra però appena fuori dalla città ci sono dei campi sterminati di mais.
«Su questi due campi di grano c'era la gran parte dei mezzi dell'esercito russo e si è combattuta una battaglia molto forte», dice Pasha alla radio.
Le tracce degli accampamenti russi e dei mezzi blindati (e anche le loro carcasse) erano ovunque.
Agli alberi ancora appesi gli asciugamani, le borse, i sacchetti della spesa usati come armadi, insieme a resti di cibo e altro sparsi ovunque.
Vicino agli accampamenti i segni delle granate, dei colpi di cannone si susseguono.
Arriviamo a Dymer.
Ad attenderci nella piazza principale ci sono diverse persone che attendono il cibo. Tanta gente provata dalla guerra.
«I russi hanno lasciato il controllo della zona da pochi giorni», dice uno dei ragazzi.
«Hanno svuotato le case da tutto quello che c’era dentro» – ci dice un’altra signora poco più avanti.«Siete italiani?». «Sì».
«E siete venuti fin qui? Grazie, Dio vede tutto e vi benedice per quello che state facendo!» – ci urla dietro un’anziana evidentemente commossa.
Mi commuovo anch'io pensando alla filiera di amore che parte da Torino e attraversa tutta Europa.
È la Chiesa che cerca semplicemente di vivere il Regno che sta raggiungendo la gente.
Mi torna in mente il testo di una nostra canzone: “Nessuno può togliere a Dio l’eternità di ogni suo atto di amore”. Ecco.
I cristiani dovrebbero essere fatti per ricordarselo a vicenda nei momenti più difficili.

Apriamo i portelloni dei furgoni e con Rosa, Marco, Albano, Filippo, Sofia e Rarash iniziamo ad aprire gli scatoloni e a preparare i pacchi spesa.
Un po’ di latte, pasta, riso, zucchero, scatolame, dolci, caramelle. Più o meno 10 kg a famiglia.
Si crea una fila composta e per certi versi interminabile.
Apro uno scatolone e trovo un sacco di cioccolato italiano.
Mi volto, due bambine si stringono alla gamba della mamma con tutta la forza che hanno, quasi a tenersi in piedi.
Mi avvicino e la bimba più grande mi guarda dritto negli occhi.
Da sotto la giacca tiro fuori due stecche di cioccolato Kinder.
I suoi occhi si illuminano e il rumore del suo respiro stupito è un suono che sarà difficile da dimenticare.
Un’anziana signora che ha assistito a tutta la scena, sorridendo e con fare ironico mi dice:
«E per me niente?».
Ci mettiamo tutti a ridere e allungo un pezzo di cioccolata anche a lei che con fare bambino si mette a gongolarla tra le braccia.

La madre della bimba tra i sorrisi e le lacrime mi dice sottovoce: «Vi prego fate chiudere i cieli». Dio solo sa cosa ha visto.
La questione della No Fly Zone è una richiesta che abbiamo raccolto da tante parti, ma sappiamo bene quanto la questione sia controversa. La distribuzione continua senza sosta. I militari della scorta ai lati dei furgoni iniziano a raccogliere le richieste delle persone anziane più lontane. La coda sembra non smaltirsi mai, mentre il cibo diminuisce a vista d’occhio. Iniziamo a preoccuparci che non basterà per tutti e del fatto che vorremmo evitare scatti una rivolta. Iniziamo a diminuire le quantità finché non terminiamo tutto quello che avevamo.
Rimaniamo sospesi e invece, con nostro stupore, la gente viene comunque a ringraziarci per quanto avevamo fatto. Alcuni ci dicono di non preoccuparci che chi ha avuto dividerà con gli altri il cibo. Che lezione di umanità!
Sono le 16, è tardissimo, e dobbiamo ancora arrivare a Rivne prima del coprifuoco. Ripartiamo un po’ di corsa, con la gente che esce in strada a salutarci. Lasciamo sulla strada cumuli di cartone, ma le persone ci fanno cenno di partire. Chi era lì si è messo a raccogliere a nome nostro.

Riprendiamo la strada dell’andata ma questa volta ci portano verso la strada per Zytochymir per accorciare.
Le stradine di campa¬gna che percorriamo mostrano tutto l'orrore della guerra che è passata da lì.
All'improvviso davanti a noi un ponte completamente bombardato è una strada che va verso il basso con una pendenza difficile da sopportare per i nostri furgoni.
«Queste sono Borodyanka e Makariv».
Pensavamo di aver visto tanto di questa guerra.
E invece no.
Borodyanka era spettrale, completamente bombardata e distrutta dall'esercito russo.
Cumuli di condomini in macerie, tagliati come budini dai bombardamenti chirurgici, dentro i quali si continua a scavare per cercare i corpi e i sopravvissuti.
Poco dopo arriva Makariv… le due città sono separate da una strada di 1-2 km completamente ricoperto da casse d'armi, mine e granate.
Il villaggio era formato da piccole case di campagna.
Ora non ce n’è più una in piedi.
«Qui hanno ucciso tutti gli uomini» – dice Pasha alla radio.
Cosa hanno cercato qui? Quale tipo di minaccia c’era tra queste mura?
Il nonsenso di quello che stiamo vedendo vorrbbe imporsi sulla realtà.
Questo è uno degli effetti della guerra: rubarti tutto, compresa la speranza. Ma bisogna stare concentrati sulla luce.


Testi e foto di Marco Maccarelli
NP maggio 2022

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