Click - aprile 2021

Pubblicato il 21-07-2021

di Luca Periotto

Roma, 26 novembre 2012
Sovente mi domando quale sia la benzina che alimenta i "sognatori".
«Dammi una risposta logica affinché capisca che la vita non è soltanto messa in scena.
Fai in modo che una porta sia sempre aperta, anche quando sei su un set, e che una macchina da presa rimanga accesa puntata su quell’uscio».
Quando irrompe sulla scena un imprevisto si innesca la magia del cinema: resta sempre vigile perché se accade, devi essere pronto a catturarla senza fermare la scena, costi quel che costi! Guai a dare lo stop perché il caos della vita non può essere mai fermato. È proprio vero ordinare la confusione è il mestiere del regista.

In una primaverile giornata di fine novembre restai sorpreso di sapere dal mio amico Michelangelo (Dotta) e dal professor Liborio (Termine), entrambi docenti di cinema all’Università di Torino, che il Maestro Bertolucci si sarebbe reso disponibile a realizzare una lunga videointervista a casa sua a Roma, presso il suo domicilio nel quartiere di Trastevere. Quando arrivammo il Maestro stava male e per poco rischiammo che non se ne facesse nulla. Trascorremmo un'ora in uno stato d’apprensione passeggiando su e giù sul marciapiede davanti all’Università Americana dove si trova lo stabile che ospita l’alloggio romano del noto regista emiliano. È una strada grigia che si trasforma in technicolor quando è affollata dai turisti, con l’unico difetto che non si vedono le foglie di Trilussa volare nel vento romano perché intorno non ci sono alberi.
Trascorsa un'ora fummo raggiunti dall’assistente personale che ci invitò ad entrare, il Maestro ci avrebbe raggiunto da lì a poco.

Attraversando l’ingresso di quello stabile patrizio provai un senso di smarrimento tra la soglia e la porta di legno blindata, rivestita internamente di una spessa imbottitura rossa come quella di certi divani di lusso, come quella di una cella di isolamento di un vecchio ospedale psichiatrico, e il presentimento che tutto ciò che fosse transitato prima, durante e dopo il nostro passaggio, si sarebbe trasformato nella polvere della memoria che si accumula sugli oggetti, sotto i tappeti.
Dopo 20 minuti, il tempo di preparare le telecamere e le luci, il Maestro si materializzò spuntando da dietro una tenda rossa come quelle che separano un corridoio da una platea. Ci venne incontro dandoci il benvenuto senza troppi convenevoli. Immaginai che si comportasse sempre così sul set. Mise l’occhio dentro la loupe per vedere e valutare dove avevo preventivato luce e inquadratura, fece una piccola correzione e con un cenno di approvazione mi sorrise.

10 secondi di quello sguardo lucido, penetrante bastarono a trafiggermi. Immaginate cosa possa aver provato una persona che ha studiato fotografia e cinema in una tale privilegiata situazione, quando il tempo si ferma e ogni forma si distorce. Ad un tratto notai che in quello spazio sufficientemente grande da ospitare un cinema privato, da una parete completamente bianca spuntava il foro da dove fuoriesce il fascio luminoso durante la proiezione, lo stesso che dopo aver percorso un breve tragitto a testa in giù si raddrizzerà spalmando sul telo di proiezione l’emulsione di una realtà parallela.
Il cinema è questo, una piccola lampadina al tungsteno che quando si scalda viene amplificata come il sole dalla lente del proiettore che andando controcorrente, ripercorre a ritroso il tempo.
Questo mese di marzo 2021 il Maestro Bernardo Bertolucci, una montagna del cinema mondiale, avrebbe compiuto 80 anni. Era nato a Parma nel 1941 la stessa età di mio padre, più anziano di lui di un solo mese. Provai una sensazione d’affetto immediato nel vederlo muoversi sulla sedia a rotelle e glielo dissi: «Questo marchingegno ha le stesse "gambe" di mio padre, pure lui è sulla sedia a rotelle ma lei Maestro sembra muoversi meglio! Le spiace spostarsi un po’ a destra? Bene, con la luce calda dell’abat-jour verrà una bella fotografia». «Dici?».
Mi rifissó… Patisco gli occhi, temo lo sguardo: siamo certi che gli occhi non siano spugne e tutte le immagini raccolte durante un percorso di vita non rimangano insieme, lì a galleggiare? Quello stato di salute compromesso dalla malattia non lo aveva imbruttito.

Tuttavia non stenterei a credere che a lui la luce ormai faceva più male di una sberla.
Ai lati della stanza voluminose tende di velluto rosso, spesso, riflessi rossi e toni caldi disegnati.
Sulle pareti alcune bozze di acquerello probabilmente realizzate da lui in persona. Fu come se Vittorio Storaro fosse lì in qualche altra stanza a controllare le luci.
Mi resi conto che ero entrato nel tempio del dolore dove gli oggetti conquistati in una vita hanno perduto la dignità, quella di una semplice occhiata d’orgoglio. L’impeto e la vitalità di chi porta con sé il profumo del male vero. In un minuto Bertolucci si dimostrò interessato e loquace e mi chiese che cosa ne pensassi delle fotocamere che girano video: «Ci potremmo fare un film Maestro, se soltanto lo volesse, lascio a lei l’inquadratura ».

Dietro il set un telo di cinema bianco ben teso, come deve essere, forse conteneva una posa lunga di tutti i fotogrammi girati in una vita e vedevo che ogni tanto lo scrutava, lanciava occhiate interessate. «Cosa ne pensa degli scatti in bianco e nero del fotografo Hiroshi Sugimoto? Sono quelle dove si vedono gli interni di cinema vuoti con al centro lo schermo bianco sovraesposto, una lunga proiezione dal primo all’ultimo fotogramma: questa stanza trasformata in cinema mi ricorda quelle foto».
Ho scelto di pubblicare il ritratto a colori dopo averlo scelto tra diversi scatti in bianco e nero: sarebbe stato un oltraggio alla memoria di chi ha costruito con il colore il suo personale monumento.
Per quanto mi riguarda, una manciata di anni dopo, cioè oggi, sento che vive e vivrà per sempre sospeso da qualche parte come le foglie di Trilussa costrette a partire per poi ritornare anche se non vi sono alberi.

Stasera guarderò Io e Te, l’ultimo suo film: è impossibile non riconoscere una dote di chiaroveggenza nella storia di due fratelli che dopo aver fatto provviste decidono di vivere rinchiusi un mese in cantina isolati dal mondo, per ritrovarsi e guarire i loro demoni.
È fin troppo chiara la metafora di ciò che ci sta accadendo e spero che alla fine accada anche a noi ciò che avvenne in quell’ultima inquadratura dove si vedono i due protagonisti allontanarsi lungo una strada acciottolata, fuori. all’aria aperta, per riassaporare nuovamente l’odore dell’aria.


Luca Periotto
NP marzo 2021

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