Amici in comune
Pubblicato il 20-05-2024
La coesione sociale non è solo un fatto economico, ma un progetto del cuore e dell’intelligenza, una visione in cui credere e per cui spendersi. Perché non esistono ricette automatiche per combattere le disuguaglianze e sentirsi meno soli. Servono piuttosto una nuova mentalità e approccio: quell’amicizia sociale che può rappresentare davvero una rivoluzione. L’economista Stefano Zamagni lo sostiene da una vita. Docente all’Università di Bologna dal 1979, è considerato uno dei padri degli studi sull’economia civile. Già presidente dell’Agenzia per il terzo settore e della Pontificia accademia delle scienze sociali, Zamagni sostiene da tempo l’urgenza di un cambiamento.
Lei ha messo in guardia dei rischi dell’odio sociale…
Sì, qualche anno fa ho parlato di aporofobia, paura del povero e del diverso che può sfociare in odio. Per noi italiani è un fenomeno recente, dal momento che la nostra cultura è sempre stata plasmata dalla compassione. L’odio sociale è pericolosissimo perché è alla base di un fenomeno americano che arriverà presto da noi: il singolarismo, l’estremizzazione dell’individualismo, per certi aspetti il suo superamento.
In che senso?
Il singolarismo punta a recidere ogni legame tra l’individuo e il suo contesto. Ognuno deve fare da sé e per affermare te stesso devi cancellare il legame con il contesto sociale a cui appartieni: famiglia, scuola, gruppi. Insomma, nessuna forma di collaborazione o cooperazione. Gli altri sono solo un mezzo di supporto per raggiungere i propri obiettivi. Tale singolarismo è nemico giurato dall’amicizia sociale e produce effetti devastanti come la solitudine esistenziale. I dati ci dicono che il 52% degli americani soffre di tale problematica. Pensare di farcela da soli porta a frustrazione e depressione. Ma ci sono altri effetti.
Quali?
Tale orizzonte singolarista ripensa completamente le nostre istituzioni, a partire dalla scuola che, sin dalla fondazione, è un’esperienza di crescita insieme agli altri. Il singolarismo comporta poi una perdita di produttività: lavorare da soli porta effetti negativi perché uno più uno fa due ma uno con uno fa tre. Infine, il singolarismo non porta la felicità. Da soli non possiamo essere felici, solo insieme. Lo ricordava già Aristotele. Quando hai solo contatti e non relazioni, come si può essere felici? Proprio questa sconfitta sul tema della felicità può essere la chiave per superare il singolarismo. Alla fine, i giovani vogliono essere felici e se ne stanno accorgendo.
I giovani però continuano a subire le scelte sbagliate del passato. In che modo possono trovare il loro posto?
Il capitalismo che conosciamo oggi è figlio della rivoluzione digitale e della globalizzazione, è molto diverso dal capitalismo di un paio di secoli fa. La più grande differenza sta nel fatto che il capitalismo finanziario sta diventando capitalismo dei consumi. Si è passati dalla fabbrica al mercato: prima si costruiva il valore mediante lo sfruttamento operaio, ora il capitalismo estrae il valore dal consumo. Ma attenzione, il consumismo è la degenerazione del consumo: crea bisogni continui per ampliare i consumi. È questo il motivo per cui sono nati gli influencer che non sono altro che manipolatori che sviluppano bisogni di cui però non hai vera necessità. Ed ecco che per realizzare questo modello serve il singolarismo.
Come se ne esce?
Chi ha a cuore la dimensione etica della libertà non può fare orecchie da mercante. Ecco proprio la libertà: guardate quanto si è diffuso l’autoritarismo in questi ultimi anni… Io sono però ottimista: non può andare avanti così. Ci sono segnali da parte di alcuni gruppi – soprattutto i giovani – che si stanno svegliando e che non accettano questa logica. Noi possiamo tornare a rendere civile la nostra economia: noi vogliamo edificare una città delle pietre (urbs) o una civiltà delle anime (civitas)?
Bisogna scegliere. Eppure, oggi è più difficile. L’ultimo rapporto del CENSIS descrive la nostra società come un popolo di sonnambuli, incapace di fare i conti con il futuro. Crisi demografica, tenuta del sistema pensionistico e sanitario, disuguaglianze sembrano prospettive lontane, quando in realtà produrranno cambiamenti epocali. Perché non si ha più il coraggio di immaginare soluzioni?
Le statistiche confermano quanto abbiamo detto in precedenza. Ma il problema è a monte. Noi tendiamo a confondere scelta e decisione. La scelta è l’utilizzo di una procedura razionale che ci permette di trovare tra più opzioni quella che si ritiene migliore. In questo i giovani sono più attrezzati delle generazioni precedenti, grazie a tutte le informazioni che hanno a disposizione. La decisione invece ha a che fare con prospettive e direzioni di senso di cui non si ha certezza. Per decidere non basta il criterio di razionalità, ci vuole un orientamento. Uso un’immagine da esploratore. Per la scelta ci vuole la mappa, per la decisione la bussola. Sa qual è il problema?
Quale?
Per i giovani il nodo non è scegliere. Anzi sono bravissimi in questo. Piuttosto sono in difficoltà enorme con le decisioni. La nostra generazione sapeva decidere, ma non scegliere. Dobbiamo aiutare i bambini a capire questa distinzione: aiutarli a porre priorità e obiettivi, riscoprire una visione d’insieme.
Come si fa?
Dobbiamo tornare all’etica delle virtù: la pratica delle virtù (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza) apre alla decisione, permette di muoverci pur non avendo tutte le conoscenze del caso. La scuola deve educare alle virtù e non imbottire gli studenti di conoscenze sterili che verranno superate in breve tempo. Se vengono educati, i giovani si divertono e sarà il lavoro a inseguirli e non viceversa. Non si può puntare solo all’istruzione, ma l’istruzione deve essere a servizio dell’educazione.
Qual è il compito immediato delle classi dirigenti? Dovrebbero fare di più sul fronte della coesione e dell’amicizia sociale?
Sicuramente. Penso alla nostra classe manageriale che è obsoleta, non riesce a capire le implicazioni dell’Intelligenza artificiale e, soprattutto, non ha come priorità la partecipazione dei giovani. È un residuo del taylorismo, della catena di montaggio che voleva gli operai come dei bovini, mansueti e soprattutto obbedienti. Oggi non può più essere così, serve umiltà da parte dei dirigenti per dare spazio ai giovani. Bisogna fidarsi di loro, liberare energie e creatività. C’è il rischio della caduta, ma è l’unica via della crescita. Ne sono convinto: tutti coloro che lavorano devono poter partecipare alla vita dell’impresa. I vantaggi sono reali perché le persone riconosciute, stimate e valorizzate lavorano molto di più e molto meglio. Ma c’è di più.
Cosa?
Non abbiamo bisogno solo di cose. Uno dei beni più importanti (oltre a quelli comuni) è quello relazionale. L’amicizia e il matrimonio sono beni relazionali per eccellenza. Prima ne parlavano solo i sociologi, ora li studiano anche gli economisti.
Noi abbiamo beni materiali in abbondanza, ma stiamo diventando poverissimi in termini relazionali. Il singolarismo ne è una delle principali cause. Ci sono esperimenti sociali che dimostrano che chi si occupa prima del bene altrui ottiene per reciprocità anche il proprio bene. Reciprocità non è scambio, non è una questione di quantità: il valore è nell’intenzione. Il do ut des vale per i beni privati, ma per il bene relazione vale un’altra logica. Solo così costruiremo società più fraterne.
Renato Bonomo
foto Renzo Bussio
NP Focus
NP aprile 2024
Per rivedere l'incontro con l'economista Stefano Zamagni. Incontro registrato all'Arsenale della Pace di Torino il 25 marzo scorso: https://www.youtube.com/live/5kH6Nb-6tKU?si=Ac_8-LlEAkPWH9jx