Sopravvivere

Pubblicato il 26-02-2021

di Anna Galvagno

Sulla presenza dei siriani in Libano si conoscono bene i grandi numeri, ovvero il primato mondiale in termini di proporzione tra rifugiati siriani e numero di abitanti: un milione e mezzo su sei milioni. Molto meno si sa su come queste persone, nel corso di una crisi umanitaria ormai cronica e strutturale, si siano effettivamente organizzate per sopravvivere.

Perciò quando vado nel nord del Paese per partecipare a un’intervista, rimango colpita dal fatto che l’insediamento sia immerso nel verde e composto soltanto da tre tende: mi aspettavo un grande campo profughi, e invece siamo circondati da coltivazioni, allevamenti di polli e serre. La donna che ci accoglie si chiama Mariam, ha 48 anni e convive in una tenda con altre tredici persone da quando sono scappati dalla guerra, quattro anni fa. Le due figlie gemelle e il figlio non vanno più a scuola. «Questo è ciò che mi rende più triste», ci dice, «perché io non so né leggere né scrivere e avrei voluto un destino diverso per i miei figli ».

Racconta che non hanno accesso diretto all’elettricità: i proprietari della terra gliela forniscono per una o due ore durante la notte. Questo è il problema peggiore per la sua famiglia, per cui stanno pianificando di spostarsi più a nord, in un altro insediamento.
Hanno due latrine poco lontano dalle tende, ma Mariam non si sente al sicuro ad andarci da sola. La mancanza di sicurezza contro gli abusi, soprattutto per le donne e per le categorie più vulnerabili, diventa un problema gravissimo in situazioni di emergenza prolungata come questa.

Sin dall’inizio della guerra in Siria, il Libano non riconosce ai profughi nessuno status e vuole disincentivarne l’insediamento definitivo e l’integrazione locale, addirittura definita “incostituzionale”.
È impossibile per loro accedere a lavori qualificati, avere assistenza sanitaria di base, costruirsi delle case o andare in affitto. Sono obbligati a organizzarsi in piccoli insediamenti, chiamati ITS (Informal Tented Settlements), che raramente superano le venti tende. In una sorta di meccanismo neo-feudale, affittano la terra in cui si insediano dai proprietari terrieri, in cambio di lavoro e pochi spiccioli. È il caso di Mariam, a cui il proprietario chiede occasionalmente di lavorare nei campi. In assenza totale di futuro, di prospettive e di emancipazione.

Ostacolate da una legislazione severa e spesso dall’ostilità delle comunità locali, le numerose ONG arrivate all’inizio della crisi non possono fare altro che rattoppare la situazione: sotto il coordinamento delle Nazioni Unite, si riferiscono i casi le une alle altre a seconda del loro settore di intervento, aiutando nella creazione di rifugi temporanei, nell’istallazione di lampade a energia solare, e poi nella distribuzione di latrine, taniche d’acqua, coperte, materassi, estintori. O ancora cercano di prevenire e intervenire nei casi di abusi sulle donne e di sfruttamento minorile. Con il Covid-19, si è aggiunta la distribuzione di kit disinfettanti, mascherine, razioni di cibo e altri materiali per isolare per quanto possibile i casi di positività.

Ma non bisogna farsi illusioni. L’intervento umanitario non potrà mai essere la soluzione in un silenzio così assordante a livello politico e mediatico.
Per quanto molti siriani sognino ancora di tornare, non hanno però idea se la loro terra laggiù sia distrutta per sempre o occupata da altri. Sono quindi bloccati in un limbo in cui non possono andare né avanti né indietro.
Per il momento quindi il loro pensiero è sopravvivere, tirare avanti giorno dopo giorno, e superare anche il prossimo inverno.

Anna Galvagno
NP dicembre 2021

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