Non ti riconosco

Pubblicato il 20-06-2020

di Gabriella Delpero

Le mascherine anti Covid complicano le relazioni.

 

Alcuni giorni fa una bimba di circa 4 anni accompagnata dalla sua mamma mi ha guardata dritto negli occhi e mi ha chiesto: «Ma perché c’hai anche tu quella cosa in faccia?», riferendosi ovviamente alla mascherina che mai prima d’ora aveva visto sul mio volto. La risposta che ho tentato non deve esserle sembrata per nulla convincente, tanto da spingerla a dirmi che “vestita così” ero brutta e basta. La mamma, imbarazzata, le ha imposto di chiedermi scusa, ma credo abbia solo peggiorato la situazione, visto che la piccola a quel punto mi ha voltato le spalle affermando che non mi avrebbe più parlato perché «tanto oggi non mi riconosceva». E così ha fatto. Ho ripensato allora a quando studiavo che intorno agli anni ’50 un medico scozzese – John Bowlby – aveva cominciato a parlare di “attaccamento” tra il neonato e l’adulto, cioè di quel comportamento innato che spinge il bambino verso l’altra persona per il bisogno di cercare sicurezza. Tutta la vita di relazione parte dal contatto visivo tra la madre e il bambino. E la madre è principalmente un volto. L’attrazione reciproca degli occhi della mamma e del bambino è favorita dalla ricchezza e profondità di questi organi. Non per nulla si dice che «le prime parole di un amore se le scambiano gli occhi»! I genitori tendono infatti a guardare il bambino in un modo che accresce la probabilità che il bambino li guardi a sua volta e li segua, e dopo un po’ sorrida. Quindi era corretta nella mente della mia piccola amica la ferma decisione: niente volto = niente relazione!

 

Che fare? Certo di questi tempi non posso proprio togliermi la mascherina, anche se la tentazione sarebbe forte! Per convincermi, mi sono presa la briga di andare a rileggere qualcosa in più a proposito di questo tipo di protezione. È stato un igienista tedesco (Carl Flugge, 1847-1923) a dimostrare che una normale conversazione tra persone poteva diffondere goccioline (appunto le famose “goccioline di Flugge”!) cariche di batteri provenienti dal naso e dalla bocca di ciascuno: lo studioso segnalava così anche il grave pericolo per le ferite di un paziente da parte della bocca di un chirurgo che lo stia operando. Flugge confermava quindi la correttezza dell’intuizione di due chirurghi, uno austriaco (Johann von Mikulicz Radecki) e uno francese (Paul Berger), che fin dal 1897 avevano cominciato ad indossare sul volto “maschere” composte da strati di garza durante gli interventi, ottenendo un notevole miglioramento dei risultati post-operatori. 

Ma tornando ancora più indietro nel tempo, già all’epoca della famigerata “peste nera” della metà del 1400, erano in uso rudimentali mascherine fatte di stoffa per proteggere il naso e la bocca dai “miasmi” (aria cattiva e puzzolente) che si credeva fossero la causa di trasmissione delle malattie. Verso il 1.600 il medico Charles de Lorme ideò poi altre maschere, dal naso adunco che sembrava un becco, che veniva riempito di spezie – fra cui fiori secchi, lavanda, timo, aglio, mirra, chiodi di garofano – e paglia. Anche gli occhi venivano coperti con lenti di vetro. I “dottori col becco” indossavano una veste idrorepellente lunga fino ai piedi, insieme a guanti, cappello e un bastone che serviva loro per sollevare gli abiti dei pazienti e visitarli… a debita distanza!

 

Insomma, da secoli gli uomini hanno giustamente imparato a “difendersi” dal contagio allontanando, nascondendo occhi, naso e bocca. In caso di epidemia la paura si identifica quindi nell’immagine di un volto umano scoperto. Nel corso di una rapina, invece, la paura si concentra nell’immagine di un volto coperto, quello del bandito. Tutto giusto e anche tutto relativo, si direbbe. Ma continuo a chiedermi: come lo si spiega ad una bimba di 4 anni?

 

Vedi il focus Riflessioni in tempo di Covid 19

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