Mi fido di te

Pubblicato il 29-12-2020

di Matteo Spicuglia

La fiducia accorcia le distanze, ma come?
Ne parliamo con Antonio Sgobba, giornalista e scrittore.

Scriveva George Simmel nel 1908: «La fiducia rap­presenta uno stato inter­medio tra ignoranza e conoscenza. Chi sa com­pletamente non ha biso­gno di fidarsi, chi non sa affatto non può ragionevolmente fidarsi». In un’e­poca di distanze reali e percepite non si può che ripartire da qui, ma come? Antonio Sgobba è un giornalista della Rai. Ha appena pubblicato un libro sul tema intitolato La società della fiducia: da Platone a Whatsapp (edizioni Il Saggiatore).

Oggi stiamo vivendo una crisi pro­fonda di fiducia verso le istituzioni, le agenzie educative, nelle relazioni interpersonali, addirittura non ci fi­diamo fino in fondo della competen­za. Ci sono state situazioni simili in passato?
La fiducia torna ciclicamente in crisi. Possiamo trovare uno degli esempi più antichi di una comunità devastata della reciproca diffidenza tra le pagine di Tucidide. Invito il lettore a fare un salto indietro di duemilacinquecento anni per tornare a Corcira, quella che oggi si chiama Corfù. È la storia di una polis alle prese con quella che i greci chiamavano stasis: la guerra civile. La città era divisa in fazioni e nessuno credeva a chi stava dall’altra parte, il risultato fu l’autodistruzione.

Come si arriva a questo punto?
Se studiamo la storia della fiducia os­serviamo come i momenti di crisi arri­vino quando le diseguaglianze sociali si fanno più profonde. La causa si può trovare in eventi catastrofici come una guerra o una pandemia, ma è quello che accade anche quando arrivano le grandi rivoluzioni scientifiche e tec­nologiche. Una nuova tecnologia o un nuovo sistema di conoscenze produce nuove diseguaglianze: c’è chi padro­neggia il nuovo sapere e chi no, chi possiede i nuovi strumenti e chi no. È quello che già ci stava accadendo dall’arrivo dei motori di ricerca, dei so­cial network, degli smartphone. Stru­menti che hanno rivoluzionato anche le strutture alla base della nostra fidu­cia. Il rischio in questi casi è che chi ha meno potere e meno risorse si senta escluso dalla società.

Nel dopoguerra, generazioni di cul­ture e idee diverse seppero incontrar­si per costruire una società nuova. In fondo, riuscirono a superare le di­stanze, a riconoscersi almeno. Oggi è più difficile farlo. Cosa è cambiato?
Fidarsi costa fatica, vuol dire accettare di correre un rischio e di essere vul­nerabili, significa riconoscere di non poter fare tutto da soli ma di aver bi­sogno dell’altro. Molti di noi farebbero volentieri a meno di sobbarcarsi tutto questo: vorremmo non fare fatica, non rischiare, sentirci invulnerabili. Il gua­io è che oggi abbiamo a disposizione strumenti che assecondano questa in­clinazione, ci risparmiano la fatica e lo fanno in modo molto efficiente. Dele­ghiamo tutto ad app e device che fan­no il lavoro per noi, il risultato è che ci compriamo una vita più comoda al prezzo di una società fatalmente meno coesa.

Se viene meno la fiducia, ecco l’in­dividualismo. Ci siamo dentro com­pletamente? Quali sono i principali fattori di disgregazione sociale?
Come abbiamo visto questa tenden­za ha radici antiche. L’individualismo che possiamo riconoscere oggi come dominante era presente anche nelle guerre civili raccontate da Tucidide. Alla base c’era un ideale molto radicato nella cultura greca: «Essere il migliore e superare gli altri». È un verso dell’I­liade, ma è un principio molto presen­te anche nella nostra cultura, è la base dell’individualismo. La storia di Cor­cira ci mostra che cosa succede a una società quando ciascuno pensa solo e soltanto al proprio interesse e ritiene che il bene comune non esista o non abbia nessun valore.

La competenza e il senso della re­sponsabilità sono le altre facce della fiducia. Perché sono entrate così in crisi?
Ci sono due fattori. Le competenze ri­levanti per una società cambiano nel tempo. Ciò che abbiamo considerato rilevante fino a dieci anni fa oggi può non esserlo più, un esperto che si è formato in un sistema superato, se non si aggiorna, può non essere ritenuto affidabile. Ma c’è un'altra cosa che gli esperti devono ricordarsi: non basta dire la verità per essere creduti. Anche i competenti devono ricordarsi che la fiducia è una relazione, non si posso­no fare proclami dall’alto di una torre d’avorio. Gli scienziati per esempio de­vono ricordarsi di avere un ruolo pub­blico e riconoscere come interlocutore anche chi è privo di competenze.

Qual è la via di uscita?
La fiducia è una relazione, coinvolge sempre almeno due attori. La mia at­tenzione va soprattutto a chi in questa relazione ha più potere e quindi più re­sponsabilità. Politici, scienziati, gior­nalisti devono chiedersi come possono tornare a essere considerati affidabili. Un buon primo passo potrebbe essere dimostrare di essere onesti.

Il Covid ha azzerato molte dinami­che. Una crisi può essere opportunità per diventare migliori, ma non è det­to. Secondo te cosa lascerà l’esperien­za dell’epidemia?
Anche qui un salto nella storia greca di duemilacinquecento anni fa può esserci utile. L’Atene del quinto secolo subì sia una guerra sia un’epidemia. È interessante studiare come affrontò la peste: l’attività politica andò avanti, la democrazia continuò a funzionare. Gli ateniesi non arrivarono a distrug­gere il linguaggio e la morale comune, ma continuarono in qualche modo ad agire in modo coeso. Questo perché avevano sviluppato una solida fiducia reciproca, condividevano una conce­zione delle virtù democratiche. Non è detto che da un’epidemia si esca peg­giori, sta sempre a noi scegliere come affrontarla.

 

Matteo Spicuglia
NP novembre 2020

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