Libano

Pubblicato il 16-01-2021

di Anna Galvagno

Il primo impatto con il Libano: tra stupore e fascino per la complessità.

 

Mentre attraverso lo scintillante aeroporto Rafik Hariri, prima di passare alla dogana, le immagini di un Libano florido e colorato mi scorrono accanto come in un museo. Splendidi paesaggi naturali da cui spiccano i famosi cedri, simbolo del Paese. Il volo è stato talmente rilassante che ho quasi dimenticato dove mi stesse portando. Uno stampo sul passaporto, ed eccomi finalmente a Beirut.

L’immaginazione lascia in fretta il posto alla realtà. La città si presenta come un formicaio brulicante di antenne, cavi elettrici e immondizia. Gli alberi sbucano dal cemento e occupano i marciapiedi insieme alle macchine parcheggiate. Mi trovo catapultata in un caos urbanistico senza criterio, in cui non è contemplato lo spazio pubblico. I rari pedoni sono assediati dai tassisti e si spostano frettolosamente, facendo lo slalom tra le macchine e i motorini, in attesa di raggiungere il più vicino bar, negozio o centro commerciale.

Il tassista che mi porta in ospedale per fare il tampone è gentile ma taciturno. Quando finalmente si apre un po’ (in inglese, che parla perfettamente), scherziamo del traffico a Beirut, poi ovviamente parliamo del Covid-19 e della situazione in Italia e in Libano. Qui si contano in media 1400 casi al giorno, che è tantissimo rispetto a una popolazione di sei milioni di abitanti. La gente per strada ha paura e la mascherina è obbligatoria. Cerco di alleggerire il discorso parlando del contrasto tra gli edifici. In effetti, colpisce subito l’accostamento tra case antiche, spesso diroccate, ma i cui grandi porticati evocano un antico splendore, circondate da grattacieli moderni e imponenti. Lui mi indica alcune case, che però non sono logorate dal tempo ma dalla recente esplosione. «Tu hai sentito le notizie in televisione, ma io ho visto». Mi dice che la sua macchina precedente è andata in pezzi e due amici hanno perso la vita: «Vedo ancora il sangue delle persone per strada, sento ancora l’esplosione nella testa». Non vedo la sua espressione da dietro la mascherina, ma ha gli occhi lucidi. Io taccio. Di fronte alla sofferenza di chi ha perso quasi tutto, che cosa resta da dire?

Devo ammetterlo. Il primo impatto con il Libano, in tempo di pandemia e di ripartenza dopo l’esplosione di Beirut, lascia poco spazio alla poesia, alla bellezza e alla positività, ma anzi rischia di schiacciarmi in un senso di stupore muto e impotente. Che cosa resta da dire? Dove trovare bellezza e motivazione per vivere qui, se i primi a volersene andare sono gli abitanti stessi?

Ma la fortuna di trasferirsi in un Paese nuovo è poter andare oltre al primo impatto e guardare in fondo alle cose. Intuisco che Il fascino del Libano non si trova nei grandi paesaggi, nei luoghi maestosi e indimenticabili. Ma risiede proprio nelle persone, e nella complessità storica, politica e sociale. I libanesi portano sulle spalle il peso dell’occupazione delle potenze occidentali, il crollo della moneta e la crisi finanziaria, la caduta del governo scacciato dalle proteste di piazza per via di una corruzione endemica, la guerra infinita con Israele, il settarismo sfociato poi nella guerra civile, la complicata convivenza tra credi religiosi, l’arrivo e lo stanziamento dei profughi palestinesi prima, e siriani dopo. Un Paese geograficamente grande come l’Abruzzo sembra concentrare in sé i pezzi più scalcinati e contradditori del mondo contemporaneo. Resta ancora tutto da dire quindi: cercare di capire questo Paese e la sua storia significa mettere insieme i vari pezzi e magari identificare nuove vie, nuovi punti di vista ancora inesplorati, e forse nuove idee per ripartire.

 

Anna Galvagno

NP novembre 2020

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