In piedi un'altra volta

Pubblicato il 06-02-2022

di Simona Pagani

«Pronto Sermig? È il Consolato. C’è qui una signora che è arrivata in Italia due mesi fa per stare accanto alla figlia che ha problemi psichiatrici. La figlia l’ha segregata in casa maltrattandola. Ha lividi sul corpo e sul volto, ha perso 20 kg. Non ha la residenza e i servizi sociali non possono aiutarla».
«Sono incinta, il mio compagno non vuole che io tenga il bambino, mi ha mandato via da casa. Io non so cosa devo fare».
«La ditta in cui lavoravo un anno fa ha chiuso. Per un po’ sono riuscita ad andare avanti con i risparmi, ma poi non sono più riuscita a pagare l’affitto.
Da una settimana sto dormendo in una cantina. Non ce la faccio più». «Non mi voglio più prostituire, vorrei andare a scuola e trovare un lavoro».
Polizia. «C’è una signora qui con i suoi tre figli, ha appena sporto denuncia per maltrattamento nei confronti del compagno, la accompagniamo in ospedale per la refertazione. Stiamo cercando un posto per lei».
Ospedale. «Chiamiamo per una signora con una leucemia, vive al campo rom, deve fare il trapianto di midollo, le condizioni in cui vive non sono compatibili con l’intervento. I medici operano solo se c’è un’accoglienza disponibile ad ospitarla».
«Ho freddo, ho la febbre, sto dormendo nei container dell’emergenza freddo, non mi lavo da due settimane. Vi prego ho bisogno di un posto caldo e di qualcuno che mi dice cosa è giusto fare e cosa no».
Carcere. «G. viene scarcerata lunedì, è dentro da due anni, non ha familiari che la possano ospitare. Ha fatto un buon percorso, vorremmo evitare che ricadesse nella dipendenza da sostanze, potete accoglierla?».

Queste sono solo alcune delle richieste che ogni giorno ci arrivano.
Dietro ad ognuna c’è una persona, con la sua vita, la sua storia, la sua fatica, le sue speranze. Negli anni l’accoglienza al Sermig è cambiata tanto, siamo partiti da quel dito puntato: «Tu Olivero dove dormi stanotte?» mettendo a disposizione uno spazio per l’accoglienza notturna delle persone in difficoltà e poi, poco per volta, aprendoci all’ascolto delle vite che incontravamo.
Abbiamo allargato lo sguardo, il cuore, la casa, le possibilità. Nei tanti incontri abbiamo fatto esperienza che per Dio nessuno è perso, mai! Ed è questo suo sguardo, questo suo saper andare oltre l’apparenza, e a volte l’evidenza, che ci ha innamorati e che ci sta educando alla cura, al prenderci cura gli uni degli altri, così come lui sa prendersi cura di noi.
Ogni giorno negli Arsenali accogliamo tantissime persone, ma ognuna è accolta in modo personale, ognuno è chiamato per nome e per ognuno c’è la possibilità di costruire insieme un percorso a partire dalla sua situazione di vita, dalle sue risorse e peculiarità.
Prenderci cura dell’altro è saperci mettere di fronte a chi incontriamo con un atteggiamento di apertura, rispetto, ascolto. E ascoltare non è semplice, a volte ci spaventa il carico di sofferenza che l’altro porta, altre volte predomina l’ansia di non sapere come aiutarlo. Eppure abbiamo imparato che la prima cura è la presenza e che tante volte l’altro non cerca soluzioni, ma un contatto, una relazione in cui poter essere, in cui potersi esprimere.
La cura passa attraverso l’ascolto: non possiamo amare una persona che non ascoltiamo e, una persona non ascoltata, non si sentirà mai amata, perché mai si sentirà compresa. Ogni volta che ascolto in modo attento, benevolo, non frettoloso creo un ponte tra me e l’altro, apro la possibilità ad una comunicazione che mi permette di raggiungerlo là dove si trova e, se lo vuole, di iniziare insieme un percorso.
Quello che cerchiamo di fare ogni giorno è affiancarci alle persone disponibili a fare un tratto di strada insieme, condividendo, sotto lo stesso tetto, la quotidianità. Per qualcuno questo tratto di strada è la ricerca del lavoro, per altri la casa, un sostegno psicologico, i documenti per poter rimanere in Italia, il riuscire a liberarsi dalla schiavitù che ha inchiodato per anni la loro vita. Per tutti è tornare a dare un valore alla vita e provare a darle ancora fiducia.

È importante imparare a curare “l’aria” che c’è nella nostra casa per poter offrire un luogo “ossigenato” a chi arriva: un luogo sereno, amichevole, aperto, senza giudizio, dove chi lo vive riesca gradualmente a tornare a respirare, a sentirsi un essere umano, a trovare il suo passo per tornare ad essere protagonista della sua storia.
In questo “curare l’aria” c’è anche una dimensione estetica, curare gli spazi, offrire luoghi puliti, accoglienti, dignitosi: diventa importantissimo perché il bello cura, restituisce dignità, dice alla persona che ha un valore.
Il desiderio che ci muove è aiutare le persone a rimettersi in piedi e a riprendersi in mano la vita ad entrare in contatto con quella parte di sé che le aiuterà a germogliare nonostante le difficoltà. In accoglienza abbiamo un diario che dà voce alle amiche che, dopo un periodo di permanenza, terminano il loro percorso da noi. Lascio che sia Dora a concludere: «Vado!
Però non del tutto… perché qui c’è una parte del mio cuore, della mia allegria, della mia tranquillità, della mia famiglia. Ho avuto il privilegio di vivere dei giorni pieni di dolcezza, di rispetto, mi sono sentita valorizzata e mi sono sentita veramente bene! Me ne vado ma senza andarmene perché ci sarò quando avrete bisogno di me come voi ci siete stati per me».


Simona Pagani
NP novembre 2021

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