Il mondo di fuori

Pubblicato il 28-04-2021

di Stefano Caredda

Ci sono questioni che si trascinano per decenni e che per decenni non trovano soluzione, anche se la via da percorrere, in linea di principio, appare ben chiara. Fra queste c'è la questione dei "bambini in carcere", di quei piccolissimi cioè che vivono di fatto all'interno delle strutture carcerarie in compagnia della propria madre, detenuta. Il principio di fondo dice che la crescita di un bambino – fisica e psicologica – è del tutto incompatibile con il carcere: un bambino non può essere costretto a vivere dietro le sbarre. La realtà racconta invece che allo scoccare della mezzanotte che ha segnato il passaggio fra il 2020 e il 2021 in tutta Italia c'erano 33 donne detenute in carcere con i loro bambini sotto i 3 anni. Numero che prima della pandemia era addirittura doppio.

Le voci di chi ha conosciuto nel tempo questa realtà raccontano di bambini le cui prime parole non sono «mamma» o «pappa», ma «aria», «apri», «fuori».
Di bambini che dopo aver imparato a camminare non si muovono dalla loro camera detentiva se non in presenza dell'agente penitenziario. Raccontano insomma di anni (e i primi tre di vita rivestono un'importanza capitale) potentemente influenzati dal luogo "carcere". Un bimbo in prigione reca con sé problemi e questioni insolute, a partire dalle più banali («chi lo porta a scuola?») che la magistratura scioglie decidendo in base alla situazione specifica della madre, con ampi margini di discrezionalità. Il che può anche creare differenze di trattamento fra bambini che abitano nello stesso luogo e che si osservano a vicenda: «Perché lui sì e io no?». Insomma, si ripete ormai da decenni, «tutto questo non è più accettabile ».

Ma nel concreto si fa immensa fatica. In teoria, secondo la normativa vigente, da 15 anni dovrebbero esistere gli Icam, degli istituti a "custodia attenuata" per le detenute, madri di figli fino a 6 anni, che non possono usufruire di misure alternative alla detenzione. Dovrebbero essere strutture più simili ad una casa che ad un carcere, ad esempio senza sbarre e senza divise, proprio per evitare che i bambini soffrano l'esperienza della carcerazione forzata.
Icam a parte, nella sezione femminile di ogni carcere dovrebbe comunque esserci una zona nido "adatta" ai bambini. La realtà è che – con la sola eccezione di Milano, dove l'Icam di San Vittore è un vero e proprio appartamento a qualche chilometro di distanza dal carcere – tutte le altre sono e restano strutture con una dinamica reclusiva-penitenziaria.

Visto il sostanziale fallimento degli Icam, fra gli esperti sul campo si è diffusa la convinzione che la via d'uscita sia sancire che l'unico modo di accoglienza delle detenute con figli fino a 6 anni è quello di ospitarle in case famiglia protette. Non si pensa a strutture da costruire ex novo, ma all'apertura, anche alle detenute, delle tante realtà di accoglienza già oggi presenti su tutto il territorio nazionale per rispondere ai tanti altri tipi di fragilità.
La legge di bilancio 2021 ha stanziato un milione e mezzo di euro annui, per tre anni, proprio per finanziare la predisposizione a tale scopo di case famiglia protette. Con la speranza che sia la volta buona.


Stefano Caredda
NP febbraio 2021

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