Frontiere

Pubblicato il 25-06-2022

di Matteo Spicuglia

Dicembre 2021, confine tra Bielorussia e Polonia. Una foto fissa per sempre lo strazio di una famiglia.
Si vede un uomo con i suoi cinque figli. In silenzio, nella radura di un bosco. Tutti attorno a una tomba di fortuna ricoperta da un ramo di abete. Quella della moglie e della mamma: l’epilogo della storia terribile di Avin Irfan Zahin, 39 anni, una donna curda scappata con la sua famiglia dall’Iraq per raggiungere l’Europa. E bloccata come tanti altri disperati al confine, a meno 27 gradi sotto zero. Da una parte la Bielorussia e il suo cinismo, dall’altra la Polonia e le sue frontiere sprangate anche alla pietà. Avin era incinta e stava male. Assistita troppo tardi, se la sarebbe portata via un’infezione.

Febbraio 2022, confine tra Ucraina e Polonia. L’invasione russa iniziata da pochi giorni. Le città bombardate.
Il copione di sempre: le colonne di disperati che scappano. Questa volta i profughi non troveranno confini chiusi, ma braccia aperte. Con un’onda di solidarietà commovente, dalle guardie di frontiera che hanno fatto passare tutti in modo ordinato, ai cittadini comuni, capaci di riempire in appena otto ore lo stadio del Wisla Cracovia di centinaia e centinaia di tonnellate di generi alimentari, medicine e coperte per gli esuli stipati alla frontiera.

Due storie. Due spaccati di realtà certo diverse, ma non così tanto.
Da un punto di vista puramente razionale non dovrebbe esserci alcuna differenza tra chi scappa: una famiglia irachena ha la medesima dignità di una famiglia ucraina. Allo stesso modo, il presente violato di un bambino dovrebbe tormentarci indipendentemente dal colore della sua pelle o dall’origine dei suoi genitori.
Tuttavia, sappiamo bene che non è così. Le nostre azioni, i nostri giudizi, le decisioni di chi ci governa spesso sono guidate da emozioni, non da ragionamenti.
È quello che quasi sempre avviene nel mondo dell’informazione quando si tratta di raccontare disastri o tragedie. La bussola è quella della notiziabilità di un fatto che viene definita da diverse variabili, come la vicinanza e l’empatia con le vittime.
Gli addetti ai lavori la conoscono come legge di McLurg, un’analisi che prova a fissare alcune proporzioni.
La morte di un europeo, per esempio, da un punto di vista mediatico equivale alla strage di ventotto cinesi.
Così due minatori gallesi equivalgono a cento alluvionati pakistani.

Potremmo applicare la stessa regola alle guerre e non dobbiamo scandalizzarci.
È normale che un conflitto alle porte di casa ci coinvolga e colpisca più di una tragedia che avviene dall’altra parte del mondo. È l’istinto che ce lo dice, la nostra stessa natura che ci porta a solidarizzare con chi sentiamo più vicino a noi per cultura, idee, appartenenza.
I due pesi e le due misure usate con i profughi alle frontiere orientali europee si spiegano solo così.
Eppure, questa non può essere la strada. Serve uno scatto in più per capire che l’unico valore è semplicemente il volto di chi abbiamo davanti, la sua storia, le sue lacrime, ma anche tutta la sua speranza inespressa.
La vita ce lo ricorda continuamente e forse anche questa assurda guerra ripiombata nel cuore di una Europa intorpidita. Di un’Europa che dopo 70 anni di pace aveva dimenticato una verità semplice, semplice: gli altri non sono “altri”, siamo “noi”.


Matteo Spicuglia
NP marzo 2022

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