Dall’ omelia di dom Claudio Hummes

Pubblicato il 15-02-2012

di Redazione Sermig

Carissimi fratelli e sorelle,
è una domenica speciale per me,
perché sono all’Arsenale della Pace di Torino. E ci sono non per obbligo, ma per amore e amicizia. Molte volte ho desiderato venire qui, ma fino ad ora non mi è stato possibile: oggi le agende dei vescovi sono terribili!
Questo è un momento in cui tutti noi sentiamo ancora dolore per la morte di Dom Luciano, ma è anche un momento di forte gioia interiore, perché sappiamo che lui, uomo santo, ci guarda dal cielo con un sorriso ed è qui tra noi spiritualmente, nella comunione dei santi.

È stato un uomo centrale nella vita della Chiesa del Brasile, per otto anni come segretario generale e per altrettanti come presidente della Conferenza episcopale brasiliana. Un uomo molto conosciuto anche nella recente storia, sociale e politica, del Brasile, fin dal tempo del regime militare - che è stato al potere dal 1964 per venti anni -, periodo di dura repressione e di violazione dei diritti umani. Lui era noto fin da allora per la sua azione in favore dei più deboli nella società e dei perseguitati. Con la sua morte ha vissuto la sua Pasqua definitiva. Sappiamo che noi, battezzati nel nome della Santissima Trinità, siamo diventati membri del corpo di Cristo e partecipiamo al destino di Gesù Cristo. Se moriremo con Lui, un giorno anche con Lui risusciteremo per una vita senza fine presso il Padre. È questo che dice il Vangelo ed è questo che celebreremo nell’eucaristia, il momento che rende di nuovo presente la Pasqua di Gesù. Lui, morto e resuscitato, è presente nel sacramento sotto l’apparenza di pane e vino. Si è fatto quasi niente, si fa pane e vino, o meglio, pane e vino si trasformano in Lui. Noi vediamo solamente i segni apparenti ma Gesù è veramente presente.

Dom Luciano ha vissuto l’avvicinamento alla morte in modo esemplare, cristianamente parlando, pienamente unito a Gesù Cristo: con fede profonda vedeva la morte imminente e si metteva nelle mani di Dio. Morto con Cristo resusciterà anche con Cristo, partecipando alla Sua gloria. Nella nostra vita anche per noi è così, dal battesimo in poi, perché il battesimo è un inizio di morte. Noi siamo sepolti nell’acqua del battesimo. San Paolo dice che noi nel battesimo moriamo a tutto il male, a tutti i peccati. Col battesimo la morte è già vinta, anche se dobbiamo morire ancora. La forza del battesimo ci porta già la forza della resurrezione. Anche la vita cristiana è fatta così, di tante morti che dobbiamo soffrire e di tanti episodi nei quali la resurrezione in noi ci mostra che vince la morte.

Il Vangelo di oggi (Mc 9,30-37) ci mostra gli apostoli sono spaventati dalla notizia che Gesù dovrà soffrire e morire. Lui insegna che non basta crederlo il Messia, ma bisogna seguirlo nel suo cammino in questo mondo. Ci dice che è necessario essere “ultimi”, al servizio degli ultimi. Se uno vuole essere il primo in questa vita sia l’ultimo di tutti, il servo di tutti. Dobbiamo accogliere, sempre, i più deboli, i più abbandonati, i più esclusi e chi li accoglie, accoglie Lui e accoglie il Padre che Lo ha inviato. Questa è la sequela di Cristo. La vita cristiana deve essere così. L’essere ultimo però non è una condizione che ci è imposta contro la nostra volontà. Non possiamo costringere con la forza qualcuno a essere l’ultimo: questa è una schiavitù indegna dell’uomo. Scegliere di essere l’ultimo, sceglierlo liberamente e per amore degli altri, questo ci converte. Trasformiamo quello che è morte in un gesto di amore e di vita per tanti.

È questo che Gesù ci chiede: essere gli ultimi, i servi di tutti. Farsi l’ultimo e accogliere gli ultimi ha caratterizzato la vita di Dom Luciano. Lui era costantemente preoccupato di essere presso gli ultimi, per dar loro forza, speranza e amore affinché si sentissero degni, sollevati nella loro dignità umana, Figli di Dio. Ha scelto di vivere così liberamente, come un gesto d’amore. Lui accoglieva spesso in casa sua uomini di strada, gli ultimi degli ultimi. Una volta offrì ad uno di questi uomini il suo letto e lui dormì per terra. Sono gesti che esprimono bene quello che era.
Li faceva con semplicità e senza esibizionismo, con assoluta serenità e spontaneità, per amore, senza preoccuparsi della reazione di chiunque di fronte ad una tale radicalità.

Quale insegnamento ne ricaviamo? Tutto ci parla sempre dell’amore. Dom Luciano è un santo, come ho detto nell’omelia del suo funerale a San Paolo. È santo perché ha saputo amare. L’amore era il suo forte, ciò che lo caratterizzava, proprio quell’amore di cui tratta il Papa nella sua enciclica, Deus caritas est. Cosa vuol dire che Dio è amore? Dio è amore di donazione, che si dimentica di se stesso e si dona senza riserva, cioè senza riservare niente per sé. Chi dona la sua vita, non la perde, ma la trova, come dice Gesù. Chi riserva la vita per sé, chi non è capace di donare niente di sé, un giorno perderà tutto, perderà se stesso. Amore è donarsi senza calcolo. Quando iniziamo a calcolare, l’amore non è più molto forte; anzi, è in crisi. Quando si comincia a calcolare i guadagni e le perdite, l’amore è un po’ in difficoltà. Quando il marito e la moglie cominciano a calcolare cosa perdono e cosa guadagnano nel loro stare insieme, le cose non vanno più bene, perché non c’è più amore, c’è calcolo, c’è egoismo. (…)

I santi sono santi perché hanno saputo amare, dimenticando se stessi, donando e perdendo la vita per il bene degli altri. Questo ha caratterizzato Dom Luciano, in modo straordinario. Tutti noi siamo in cammino verso la santità, ma la Chiesa prende qualcuno straordinariamente capace di amare, lo presenta come modello e lo dichiara “santo”. Anche noi possiamo essere santi e arrivare fino a Dio, ma qualcuno lo è in modo straordinario. Noi sappiamo che Dom Luciano potrà essere, un giorno, scelto dalla Chiesa come modello di santità, potrà essere una luce nel cammino dell’amore per gli altri. (…)

L’Arsenale della Speranza, a San Paolo, lo ha voluto lui. È un’opera veramente straordinaria. Lo dico anche come omaggio al Sermig, a tutti voi che lo appoggiate ed amate. Lì sono accolti 1150 uomini di strada ogni notte, ma stiamo pensando di accogliere anche le donne che con i loro figli piccoli vivono per strada. Abbiamo un progetto, che Ernesto conosce: c’è un edificio che vogliamo trasformare. Faremo una casa per le donne, con un po’ più di spazio perché hanno i figli con sé. È un’opera d’amore. Il Papa nell’enciclica dice che amare è dovere di ogni cristiano, individualmente ma non solo; anche la Chiesa come comunità deve saper amare, deve saper organizzare la sua carità e fare opere di carità. La comunità deve amare. Questo voi lo fate, con queste opere. Il Papa dice che la prima volta che la Chiesa ha organizzato la sua carità, è stato quando ha creato i sette diaconi. Ha organizzato un gruppo di uomini che dovevano prendersi cura di quelli che si sentivano esclusi. Da quel momento in poi, dice il Papa, il servizio della Parola, il servizio dei Sacramenti, il servizio della Carità, sono i tre servizi della Chiesa. Uno importante quanto l’altro. La Chiesa non può fare a meno né della Parola, né dei Sacramenti, né della Carità.
Celebriamo tutto questo ricordando con molto amore, con amicizia Dom Luciano. E anch’io voglio dire il mio amore a tutti voi e alla vostra opera. Grazie!

(La deregistrazione dell’omelia non è stata rivista dall’autore)

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