ISRAELE E PALESTINA: Oltre il muro

Pubblicato il 09-05-2014

di Carlo Maria Martini


Giornalista di Avvenire, l’autore (che nel 2005 ha pubblicato anche “Gaza, incatenati a un sogno” per le Edizioni Medusa) non si è accontentato delle notizie di agenzia sul conflitto più duraturo dell’ultimo secolo ma, in omaggio a quel giornalismo di reportage che ormai pochi ancora praticano “sul campo”, si è recato più volte in Israele e nei territori palestinesi, interessandosi agli aspetti più quotidiani della vita della gente. Ripagato dalla scoperta di aspetti inediti, li offre alla nostra attenzione.


di Giorgio Bernardelli

 

 Sentiamo spesso parlare di Gerusalemme. Non passa settimana senza che da quell’angolo del mondo ci arrivino notizie. Eppure l’impressione è che ci sia sempre qualcosa che ci sfugge. Facciamo una gran fatica a capire questa terribile altalena di speranze di pace e nuovi improvvisi rivoli di sangue. Non abbiamo ancora fatto a tempo a illuderci che con il ritiro dei coloni da Gaza qualcosa possa cambiare e subito le cronache di queste ultime settimane sembrano riportarci inesorabilmente indietro. Ci si innamora molto facilmente di Gerusalemme, ma è altrettanto facile stancarsene. Puntare il dito da una parte (quale delle due in fondo è poco importante) e finire poi a guardare altrove.

Basterebbe invece l’umiltà di chi si ferma per un momento ad ascoltare senza aver già emesso il verdetto, per scoprire qualcosa di diverso. Per vedere che anche in mezzo ai muri più alti possono spuntare all’improvviso dei ponti. E che questi ponti dicono molto anche sulle ragioni vere per cui invece si costruiscono i muri. È l’esperienza che, da giornalista, mi è capitato di vivere personalmente nella Terra Santa della seconda intifada: una serie di incontri con persone e realtà che proprio mentre in Israele e nei Territori la parola che andava più in voga era “separazione”, hanno deciso lucidamente di continuare invece a scommettere sul dialogo con “chi sta dall’altra parte”. Provandone a capire a fondo le ragioni, che in un conflitto complesso che dura ormai da un secolo molto difficilmente stanno tutte solo da una parte.

Le loro testimonianze ora sono diventate il libro “Oltre il muro. Storie, incontri e dialoghi tra israeliani e palestinesi”. Un volume controcorrente. Perché non rifà la lunga sequela delle guerre arabo-israeliane, non conta i meriti e le colpe di questo o quel leader politico, non dà la soluzione “ragionevole” del conflitto. Prova invece a lasciar parlare una galleria di israeliani e palestinesi particolari. Gente che ha continuato a ragionare su questioni come la terra e le identità anche in questi anni durissimi in cui in Israele e nei Territori si moriva (e si continua a morire) per altre ragioni: l’affermazione di un’ideologia fondamentalista, la sete di vendetta, l’applicazione di una certa idea di sicurezza.

Si capiscono così i racconti delle famiglie del “Parent’s Circe”, arabi ed ebrei accomunati dal dolore di aver perso una persona cara a causa di questo conflitto. Genitori, mogli, figli che hanno accettato di interrompere la catena dell’odio provando a capire che c’è una sofferenza anche dall’altra parte. E oggi girano per scuole e centri culturali per dire “una semplice e banale verità”: se noi che abbiamo pagato il prezzo più alto riusciamo a parlarci, perché non dovrebbero riuscirci anche tutti gli altri? Oppure la storia di rav Arik Askerman, di “Rabbis for Human Rights”, che si batte per i diritti dei palestinesi di Gerusalemme Est in nome di quella “Torah” che predica il rispetto “per lo straniero che abita in mezzo a te”. Una battaglia non solo a parole: la sua resistenza passiva, davanti alle ruspe incaricate di abbattere una casa araba costruita abusivamente, lo ha portato a subire un processo durante il quale, sempre citando le Scritture, ha definito immorale il comportamento della municipalità, che non rilascia nuove licenze nei quartieri arabi per costringere i palestinesi a emigrare da Gerusalemme.

Ma c’è anche il gesto straordinario di padre Emile Shoufani, il parroco greco-melchita di Nazareth. Lui, educatore vulcanico, sostenitore convinto della causa palestinese, nei giorni più bui della seconda intifada ha organizzato un pellegrinaggio ad Auschwitz per aiutare un gruppo di arabi a capire la Shoah, cioè il dramma dell’altro. Una ferita che, come tutte quelle del Medio Oriente, rimane drammaticamente aperta anche a cinquanta o cento anni di distanza. Un gesto, ha insistito padre Shoufani, assolutamente gratuito, senza chiedere contropartite, perché solo purificando la memoria si costruisce la pace.

Straordinario come la porta aperta ormai quasi quarant’anni fa da Dalia Ashkenazi a Ramle. La porta di una casa che l’aveva accolta neonata appena arrivata in Israele coi genitori dalla Bulgaria. Ma che non era solo la sua casa. Perché anche per Bashir, il piccolo palestinese fuggito col padre, la madre e i fratelli durante la guerra del 1948, quella era la casa dei ricordi più belli. Oggi non ci abita più nemmeno Dalia e si chiama “Open House”: ospita l’unico asilo per i bambini arabi di Ramle e un centro di educazione alla pace. E qui può anche capitare che alcuni ragazzi israeliani decidano di partecipare a un workshop con alcuni coetanei arabi prima della leva obbligatoria nell’esercito. Con la voglia di conoscere e quindi comunque rispettare “chi sta dall’altra parte”.

Qualcuno potrebbe pensare a storie buoniste, a una serie di isole felici rispetto al Medio Oriente insanguinato che ben conosciamo. Non è così. Ciò che mi ha colpito maggiormente è stata proprio la lucidità di analisi della realtà. C’è ben poca utopia in queste storie. Quella di cui parlo è gente che non ti dice mai che la pace sarebbe facile; hanno sperimentato tutti sulla propria pelle che costa un sacco di fatica andare d’accordo. Ma non per questo smettono di credere che questa sia l’unica strada vera. Una strada certamente molto più concreta di quella “road map” di cui parlano in continuazione i politici. Un mero documento sul “metodo” perché nessuno ha ancora avuto il coraggio di mettere nero su bianco i prezzi che alla fine ciascuna delle due parti dovrà pagare se vorrà davvero la pace.

Nella lettera che ha avuto la gentilezza di scrivere per accompagnare questo libro il cardinale Carlo Maria Martini, uno che Gerusalemme la conosce bene, sostiene che le storie di “Oltre il muro” sono un ottimo strumento per “superare i luoghi comuni e guardare in faccia la realtà, accorgendosi di situazioni forse poco visibili ma molto significative. Leggendo queste pagine – aggiunge - mi sono venute in mente parole come quella di Isaia: “Ora ti faccio udire cose nuove / e segrete, che nemmeno sospetti” ”. Sì, di fronte ai troppi servizi stereotipati che puntuali anche quest’anno arriveranno nelle nostre case da Betlemme, credo che di questo tipo di novità ci sia un gran bisogno. Lasciamole parlare, queste e tante altre storie. Ascoltandole inizieremo, forse, a giudicare meno la Terra Santa e la sua gente. A quel punto, probabilmente, cominceremo a capire di più.

Giorgio Bernardelli
da Nuovo Progetto dicembre 05
 Giorgio Bernardelli
Oltre il muro. Storie, incontri e dialoghi tra israeliani e palestinesi
L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2005
(lettera di Carlo Maria Martini)

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