Trieste, il confine invisibile

Pubblicato il 15-08-2021

di Paolo Siccardi

Ogni giorno percorro i sentieri che tagliano in due i boschi che dividono la Slovenia dal Friuli Venezia Giulia nella zona carsica della Valle di San Dorligo e Pesek a sud est di Trieste.
I migranti si muovono a piccoli gruppi di due o tre persone. Invisibili prima di affrontare il viaggio. Di giorno dormono tra le rocce del Carso e preferiscono muoversi di notte tra i boschi per non farsi individuare, quando sono quasi alla fine del loro percorso abbandonano lungo il sentiero i vestiti usati durante il viaggio.

Si possono trovare zainetti, sacchi a pelo e indumenti ma soprattutto scarpe consumate e distrutte dalla quantità di chilometri percorsi. Sono le tracce di un passaggio costante e silenzioso che non si è mai fermato.
Secondo Frontex nel 2019 sono state 15.152 le persone transitate, mentre tra gennaio ed aprile del 2020, gli attraversamenti sulla rotta balcanica sono stati 5.987 passati da Trieste.

Il flusso migratorio dei passaggi per la frontiera italiana varia in base alle stagioni, ma può anche raggiungere cinquanta persone al giorno seguendo la fine della rotta balcanica che dalla Turchia, Grecia, li porta ad attraversare la Bosnia fino alla Croazia e poi la Slovenia per finire al confine con Trieste. Ufficialmente la rotta balcanica è stata chiusa nel febbraio del 2016. Il passaggio dalla Bosnia alla Croazia è il più difficile.
C’è molto silenzio su quello che succede sulla frontiera orientale e sono numerosi i report delle Ong (agenzie non governative) che denunciano gli abusi da parte della polizia contro i migranti violando le norme internazionali.

I migranti, quando vengono fermati dalla polizia locale sovente vengono picchiati, derubati e rimandati alla frontiere precedente: push back, respingimento – così i migranti ci riprovano finché non riescono a passare la frontiera successiva. Ed è per questo continuo respingimento che è stato chiamato: the game, il gioco – ma non è un gioco, è una brutale roulette.
Ci provano decine di volte, correndo rischi elevatissimi, fino a quando non riescono a passare per arrivare al termine del viaggio. I passeur rimangono in attesa dei propri clienti lungo le linee dei confini. Si fanno pagare fino a tremilacinquecento euro per un passaggio in automobile su strade secondarie o per indicare i sentieri da seguire. I migranti sono invisibile, ma appena escono dai boschi per imboccare la prima strada statale che scende per arrivare a Trieste diventano subito riconoscibili.

Il più delle volte vengono fermati dalle pattuglie della Polizia o dell’Esercito nell’operazione Strade Sicure. A volte si possono incontrare anche famiglie con due o tre bambini piccoli. Vengono identificati e portati al posto di confine di Fernetti sia per la quarantena in base alle normative sulla pandemia covid ma anche per le procedure di richiesta asilo. Secondo le normative possono essere anche respinti a Lubiana entro le 24 ore, visto che sono stati fermati all’interno dei dieci chilometri di retro valico.

La Slovenia a sua volta può respingerli alla frontiera croata e di conseguenza a quella bosniaca a causa del fenomeno di riammissione, insomma un gioco sulla pelle di persone in fuga. Il flusso è continuo e costante, ma solo scendendo a Trieste nel tardo pomeriggio si può avere il termometro degli arrivi giornalieri.
Nel salotto triestino dei giardini davanti alla stazione, sotto la statua di Elisabetta d’Austria, meglio conosciuta come la principessa Sissi, un gruppetto di volontari assiste i migranti alle prime cure mediche sanitarie. Quando arrivano ci racconta Lorena Fornasir psicologa sono in condizioni disastrose, con i piedi lacerati da piaghe e piccole ferite, per non contare i segni che hanno su tutto il corpo dovute alle torture e violenze che hanno subito durante il lungo percorso attraversando le frontiere.

Sono persone che hanno camminato, per attraversare la frontiera con l’Italia più di 20 giorni in mezzo ai boschi con la paura di essere attaccati anche da branchi di lupi o da orsi. Lorena Fornasir e suo marito Gian Andrea Franchi, (nella foto) professore di filosofia in pensione, hanno fondato nel 2019 l’Associazione Linea d’Ombra per dare il primo soccorso medico e per rispondere alle emergenze della rotta balcanica. Prima di fondare Linea d’Ombra sono stati per diciannove volte in Bosnia a Bihač per portare aiuti umanitari di prima necessita nel campo di Bira. Un campo di accoglienza maschile per i profughi in transito all’interno di una fabbrica dismessa e gestito da Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) dove sono ammassate migliaia di persone in condizioni disumane in cerca di passare il confine con la Croazia.

Tutti i giorni nel tardo pomeriggio, nei giardinetti della stazione una dozzina di giovani medici e infermieri volontari di Linea d’Ombra, si prendono cura di quel carico di umanità invisibile che arriva per farsi medicare le ferite. Un pronto soccorso a cielo aperto con le panchine che si trasformano in lettighe e i pazienti silenziosamente aspettando il proprio turno. La piazza diventa il luogo d’intervento, in quanto è la fine della rotta balcanica ma l’inizio di una nuova rotta europea che porterà i migranti ad attraversare l’Italia per arrivare fino ad una nuova frontiera, quasi sempre quella di Ventimiglia.

Nel primo lockdow del 2020 e anche durante quelli successivi di quest’anno, i volontari sono sempre scesi in piazza per coprire le necessità sanitarie, in quanto il flusso migratorio non si è mai arrestato, come afferma Gian Andrea Franchi: «Le migrazioni sono come l'acqua, trovano sempre la strada per avanzare». Dall’inizio dell’anno i volontari dell’associazione hanno medicato quasi trenta persone al giorno, ma hanno anche consegnato vestiario e tantissime scarpe per affrontare ancora chilometri di cammino.

Tra la moltitudine delle persone che si aggirano nella piazza, spuntano dall’hijab colorato gli occhi di Iman, trentacinque anni infermiera siriana e volontaria dell’associazione. Fuggita da un piccolo villaggio vicino Damasco, parla poco l’inglese mentre continua a medicare interrottamente le ferite dei migranti. È preoccupata per i suoi familiari rimasti in Siria, deve trovare i soldi da spedire a suo fratello malato che vive a Damasco. La sua storia è come quella di tanti altri, fatta di soprusi e violenze subite durante il lungo viaggio sulla rotta.

Partita con la sorella, dopo essere stata per mesi nel campo di Velika Kladuša in Bosnia è riuscita a raggiungere Trieste – adesso Iman vive negli appartamenti gestiti dall’ICS (Consorzio Italiano di Solidarietà) per richiedenti asilo. Con le prime luci della sera, una giovane famiglia afgana con due bambini cercano riparo su una panchina per fare addormentare Tariq di due anni mezzo. Karim il giovane padre, il cui significato vuol dire "nobile d’animo", tiene in braccio l’ultimo nato, Aziz che non vuole addormentarsi.

Con sua moglie Nadira sono fuggiti da Kunduz nel nord dell’Afghanistan nel 2015 subito dopo il Norouz (capodanno afgano) e durante il viaggio sono nati i loro due figli, il primo in un campo di transito in Turchia e il secondo in un campo in Grecia. Ci sono voluti cinque anni per arrivare a Trieste, ma vogliono proseguire il loro viaggio per raggiungere i parenti in Austria per poter offrire una vita migliore ai propri figli di quella che sarebbe stata in Afghanistan.
I migranti invisibili, come sono arrivati nella piazza della stazione dai sentieri carsici, dopo le cure mediche svaniscono di nuovo nell’oscurità.
Il passa parola li conduce per trovare un rifugio sicuro per la notte.

A gruppetti abituati a muoversi con il buio entrano all’interno dei silos, edifici fatiscenti abbandonati dietro la stazione ferroviaria. I passaggi precedenti hanno lasciato traccia di materassi e coperte abbandonate che serviranno per passare la notte ai nuovi arrivati. Il giorno seguente, alle prime luci dell’alba si muovono come ombre furtive per non essere individuati e proseguire il loro viaggio verso il nord dell’Europa oppure il più delle volte verso il confine di Ventimiglia con la Francia. Da quel punto in poi dovranno di nuovo affrontare l’ennesimo passaggio da clandestini al di là di muri e reti.


Foto e testo
Paolo Siccardi
NP EYES aprile 2021

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