Trash fashion

Pubblicato il 25-05-2022

di Lucia Capuzzi

Le immagini hanno fatto il giro del mondo. Montagne di magliette, gonne, pantaloni inondano il deserto di Atacama, nel nord del Cile.
Ufficialmente non esistono. Eppure sono sotto gli occhi di tutti.
Come sono finiti là? Chi li ha portati? Per quale ragione? Da dove arrivano? La risposta a quest’ultima domanda è secca quanto sconvolgente: dai nostri armadi. O, meglio, dai cassonetti che si riempiono quando li svuotiamo.

Ad Atacama finiscono le decine di migliaia di vestiti prodotti a ciclo continuo nelle fabbriche asiatiche. E rivenduti a prezzo stracciato nei negozi di Stati Uniti, Europa e Canada. Roba di scarsa qualità che gli acquirenti indossano per una stagione e, poi, preferiscono gettar via piuttosto che rammendare. Comprare un prodotto nuovo “made in China” o “made in Bangladesh” costa meno. Gli abiti vecchi vengono etichettati come “seconda mano” e portati dove possono venduti ancora o, in caso contrario, dismessi senza troppe formalità. È il circuito della moda “mordi e fuggi”, tra i settori maggiormente inquinanti per il pianeta: produce l’8% delle emissioni nocive e consuma un quinto delle riserve idriche mondiali. Oltre a scaricare negli oceani 500mila tonnellate all’anno di fibre sintetiche. E generare rifiuti su rifiuti, dato che tre quinti dei vestiti prodotti viene gettato via dopo un anno.

Per lo smaltimento si cercano Paesi in cui le contraddizioni dell’economia globale trovino un quadro legale favorevole. Come il Cile. A differenza del resto del continente che lo vieta per ragioni sanitarie o di protezione delle aziende locali, la nazione australe, insieme al Guatemala, è l’unico a importare roba usata in gran quantità. Nel 2021, ne sono passate 59mila tonnellate solo attraverso il porto di Iquique. Quest’ultimo è la principale porta di entrata del tessile in America Latina ed è affacciato proprio sul deserto di Atacama, diventato negli ultimi anni nel cimitero della moda mondiale.
Oltre i due terzi degli abiti che arrivano nello scalo restano invenduti. Non è un caso. Buona parte della merce che arriva è rovinata. Le aziende importatrici lo sanno. Ma sanno anche che, accettandola, otterranno i vestiti buoni a un prezzo stracciato dalle imprese del Nord del mondo, ansiose di scaricare altrove i propri rifiuti. Tanto c’è il buco nero di Atacama.

Le discariche legali non accettano vestiti, in base al decreto 189 del ministero della Salute, perché dannosi per il suolo. Le autorità chiudono, però, un occhio – o tutti e due – quando questi vengono abbandonati, la notte, cambiando spesso punto per non essere scoperti, dove si può fingere di non vederli. Atacama, così, si è trasformato nel “nascondiglio a cielo aperto” perfetto.

Secondo la Segreteria per l’ambiente, in tutto il deserto ci sarebbero almeno 45 punti di scarico clandestini. Solamente in quello tra Iquique e Alto Hospicio si sarebbero accumulate almeno 500mila tonnellate di vestiti. E altre se ne aggiungono, mese dopo mese. Una quantità tale da portare Atacama a insidiare il primato dell’altra maxi-pattumiera della moda del globo: la periferia di Accra, in Ghana.

Questi “cimiteri di vestiti” sono il volto scomodo della “moda mordi e fuggi” o “fast fashion” diventata ormai “trash fashion”, moda spazzatura. L’Onu aveva già lanciato l’allarme due anni fa: la fabbricazione di abiti è raddoppiata tra il 2000 e il 2014. Per vari esperti, ciò è dovuto al progressivo abbassamento dei costi di produzione a causa all’incremento dello sfruttamento della manodopera, come la tragedia del Rana Plaza in Bangladesh aveva tragicamente dimostrato. E all’impiego di materiali sempre più scadenti e, di conseguenza, nocivi per la natura.

Ora, però, qualcosa in Cile potrebbe cambiare. Dopo anni di mobilitazione dell’opinione pubblica e di denunce degli attivisti, lo scorso settembre, il parlamento ha deciso di modificare la legge sul riciclo e di includere i tessuti fra le “merci prioritarie”, il cui smaltimento è responsabilità dell’azienda produttrice o importatrice. Le quantità acquistate devono essere rigorosamente certificate al pari dei rifiuti, come per plastica e metallo. In caso contrario, le aziende dovranno pagare multe salate che renderà per loro meno economico disfarsi degli abiti buttandoli nel deserto in segreto, cercando di eludere i controlli. La nuova misura sarà applicata a partire dal 2023 con l’obiettivo di stimolare il riciclo dei tessuti da parte dei produttori, l’unico, autentico antidoto alla “fast and trash fashion”.


Lucia Capuzzi
NP febbraio 2022

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