TORINO CRONACAQUI: Intervista a Ernesto Olivero

Pubblicato il 18-10-2020

di Redazione Sermig

Intervista di Andrea Monticone a Ernesto Olivero
TORINO CRONACAQUI di domenica 18 ottobre 2020

 ERNESTO OLIVERO
"La mia infanzia felice e poi questa missione di dedicarmi agli altri"

L’Arsenale della Pace, qui nel cuore di Borgo Dora, è ormai qualcosa più di un luogo di accoglienza, è un avamposto della gentilezza - che è cosa ben diversa dalla mitezza, perché ci vuole determinazione anche nel perseguire la pace - e della responsabilità, quella verso il prossimo, ma anche verso una società che si fa sempre più violenta e chiusa. Ma anche spaventata, terrorizzata dal futuro che potrebbe essere peggio anche di questo presente incerto dove sempre più persone scivolano ai margini e cercano un approdo dove trovare aiuto, appoggio, il riposo alle fatiche del vivere per poter riprendere ad andare avanti.

Ernesto Olivero, ottant’anni compiuti a maggio, è sempre qui, con la sua pacatezza e la sua fede: sono passati ben trentasette anni (e ne aveva ventiquattro quando, proprio nel giorno del suo compleanno, fondò il Sermig, servizio missionario giovani) da quando lui e i suoi sono entrati nell’ex arsenale ridotto quasi a rudere, in un borgo che era ben peggio di quanto sia oggi.

Olivero, quanti anni sono di questa vita?
«Eh direi tutta la mia vita. Fin da bambino mi sono dedicato al Vangelo e al sogno di aiutare le persone. Io sono entrato nella vita che mi spettava, ho avuto la fortuna di trovare una donna, mia moglie Maria, che mi ha seguito e siamo diventati tutt’uno in questa esperienza. Ora lei è in Cielo, ma siamo sempre insieme»

Non c’è mai stato un momento in cui ha detto «Non ce la faccio più» o è stato tentato di arrendersi?
«Ho sempre trovato ragazzi meravigliosi, molti dei quali ora sono uomini e donne, che sono stati con me e ancora oggi trovo tantissimi volontari che si impegnano. Tutti noi qui lo facciamo senza prendere un euro, dando tutto noi stessi. I ragazzi che arrivano ogni giorno sono la mia forza, sono la nostra forza»

Com’è stata la sua giovinezza, com’era lei da ragazzo?
«Sono nato in un paese vicino a Salerno, mio padre era di Boves ma era stato trasferito come viceprocuratore dell’ufficio del registro. Sono l’undicesimo figlio, mia madre ha aspettato parecchio per avermi. Era lei la vera capofamiglia, non ci ha mai fatto mancare nulla. La mia giovinezza è stata meravigliosa. In paese ci chiamavamo “i piemontesi” ma senza acredine, così semplicemente. Eravamo molto felici»

Quando è venuto poi in Piemonte?
«Negli anni 50, avevo dieci anni. Vivevamo a Chieri»

E la sua vita com’era, con così tanti fratelli?
«Sono sempre stato un po’ solitario, stavo già meditando tante cose. In fondo facevo già molte delle cose di adesso: il catechismo fino a ventidue anni, facevo parte del gruppo missionario, un gruppo molto forte»

Poi c’è stato il lavoro, l’arrivo in banca.
«Ai tempi lavoravo in una cooperativa, a Chieri. Poi mi chiamarono per lavorare in banca, al Sanpaolo, come cassiere, anche se non avevo alcun diploma e senza concorso. All’epoca funzionava così: i cassieri venivano assunti a chiamata. Avevo diciannove anni»

Che ricordi ha di quel periodo? Il lavoro in banca, in quell’epoca, era diverso da oggi?
«Ricordi bellissimi, sono rimasto ventun anni e mi sono sempre trovato benissimo. Sono arrivato a essere funzionario, nella sede di piazza San Carlo. Le cose che faccio, me le faccio sempre piacere. I bancari allora erano persone molto qualificate, entravano nell’intimità delle persone. Doveva esserci molta fiducia, molta cautela. Finché ho avuto la possibilità di licenziarmi e intanto il Sermig si allargava sempre di più, richiedeva sempre più impegno. Anche se per tutto quello che ho fatto non ho mai trascurato il lavoro, il lavoro è una cosa seria»

C’è stato un episodio particolare che l’ha spinta a cambiare vita?
«No, non un episodio ma l’incontro con una persona. Mi ha conosciuto, mi ha letto nel cuore , dopo un tempo, mi ha detto che potevo licenziarmi . Avevo già raggiunto il minimo per andare in pensione, allora ne ho parlato come facevo sempre con mia moglie Maria. Lei mi ha detto “Hai sempre dimostrato grande saggezza nel mantenere la famiglia, i nostri tre figli, devi decidere tu”»

E non ha avuto paura, un attimo di esitazione?
«Non ho avuto mai paura. Le cose devi farle e il coraggio deve accompagnarti, ma senza essere spavaldi o spacconi. La serietà paga. Se uno è onesto non deve avere paura, l’onestà parla per lui»

Facciamo un passo indietro. Il Sermig è stato fondato nel 1964, poi sono venuti il ’68 e gli anni della contestazione. Lei come ha vissuto quel periodo?
«Le cito una cosa che disse Adriano Sofri, che era stato il capo di Lotta Continua. Disse “Nel ’68 non ci siamo accorti di Ernesto Olivero e dei suoi amici, ora devo dire che lui aveva trovato una strada che noi non avevamo visto”.  Fin da allora non abbiamo mai voluto schierarci politicamente, non per qualunquismo ma per poter incontrare, dialogare, collaborare con tutti. Abbiamo sempre dichiarato nostre idee, viviamo ciò in cui crediamo e la gente lo capisce e se non ha pregiudizi aiuta in un modo meraviglioso?

Quali sono state le persone più importanti che ha conosciuto in tutti questi anni?
«I ragazzi del Sermig. Molti li chiamo ragazzi anche se ora sono uomini come me. Si impegnano giorno e notte per amore. Poi, certo abbiamo conosciuto molti personaggi…»

Un esempio è il bandito Pietro Cavallero.
«L’abbiamo conosciuto nel bene e nel male lui, come tanti altri e certo lui è stato particolare perché la sua “conversione” fece molta sensazione, ma noi con lui abbiamo vissuto tutto con molta serietà. Noi Non facciamo il conto o i nomi di chi abbiamo aiutato, di chi ha cambiato vita. Al Sermig sono venute anche molte personalità tra cui i presidenti della Repubblica, da Pertini fino a Mattarella, che è venuto da noi quattro volte»

E nel mondo della Chiesa, qual è stato l’incontro più importante? Forse con Giovanni Paolo II?
«Negli anni settanta certamente quello con il cardinale Michele Pellegrino, davvero fondamentale. Con Giovanni Paolo II ci siamo incontrati settantasette volte, è stato un rapporto intimo che prosegue nel cuore. Ho anche parlato alla sua veglia funebre.

E con Francesco?
«Ci siamo incontrati, sì»

Tra le persone da ricordare c’è sicuramente Madre Teresa.
«Era mia amica, c’era una profonda amicizia. Abbiamo tessuto rapporti di grande serietà e importanza. Ma il personaggio più importante che vorrei citare è don Luciano Mendes de Almeida, l’arcivescovo brasiliano con cui abbiamo avuto centinaia di incontri (la sede brasiliana del Sermig è dedicata proprio a lui ndr)»

Le chiedo una cosa un po’ particolare: in città sono in molti che la definiscono «santo laico», un po’ sulla scia dei santi sociali di Torino e del Piemonte. La cosa la imbarazza o la fa sorridere?
«Sorrido, certo. E mi piacerebbe non far fare brutta figura a chi mi dà fiducia»

Che definizione darebbe di se stesso?
«Io non esisto, esistono dei fatti, delle cose che si compiono. Se io posso sparire, defilarmi, mi trovo benissimo anche da “sparito”. Mai avrei immaginato che avrei avuto tanti collaboratori di tale onestà integerrima. Nessuno qui prende soldi, sono tutti volontari che si pagano anche le spese»

Com’è oggi la situazione al Sermig?
«Stiamo vivendo intensamente, come al solito. Verso febbraio o marzo nessuno avrebbe immaginato che saremmo finiti in un mondo come quello che stiamo vivendo. Ci troviamo in un momento, un mondo dove ci sono problemi molto gravi. E bisogna affrontarli con serietà, pensando che il peggio potrebbe ancora venire. La saggezza è affrontare con serietà una situazione negativa. Spesso vedo che molti giovani, che dovrebbero capirlo, la prendono invece molto alla leggera»

Immagino che lei non si riferisca solo ai problemi di ordine sanitario ed epidemico…
«No, certo. Abbiamo continuato ad accogliere ma con regole sempre più severe. Da noi passano in centinaia ogni giorno. Noi passiamo un senso di responsabilità a chi accogliamo e viviamo con speranza, la speranza che deve sempre abitare nelle nostre persone»

Torino è una città in difficoltà?
«La situazione è molto diversa rispetto a un anno fa. Il problema esiste: questa economia a rilento… le tante fabbriche chiuse… Ci sono mille famiglie, soltanto qui a Porta Palazzo, che hanno bisogno di mangiare e che noi aiutiamo. Abbiamo iniziato a distribuire cibo fino a svuotare i magazzini. Per fortuna c’è stata molta generosità da parte di nostri amici, che quando hanno saputo della situazione ci hanno aiutato»

Lei ha visto che il nostro giornale ha preparato un “tavolo delle idee”, ha lanciato il confronto per trovare idee per rilanciare, aiutare Torino. La sua idea per Torino qual è?
«Bisogna aiutare la generosità, bisogna soprattutto imparare a mettersi nei panni degli altri. Credo che la politica debba mettersi al servizio della povera gente. Dobbiamo aiutare la politica a diventare più serena, a non inseguire il consenso ma a occuparsi delle cose concrete»

Alla luce dei gravi episodi di questi giorni, da Colleferro a Caivano, lei crede che la nostra stia diventando una società più violenta?
«Molto più violenta, soprattutto nei confronti della diversità. Mentre la diversità può diventare una ricchezza, l’uomo può trattarla con saggezza».

Andrea Monticone

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