Pane e vino

Pubblicato il 26-09-2020

di Flaminia Morandi

Pane e vino, corpo e sangue. Siamo stati a lungo senza. Non era la prima volta. Nei secoli VI-VII e fino alle soglie del XVI secolo, in Occidente ma anche in Oriente, per i fedeli fare la comunione era diventato un fatto eccezionale, che avveniva due, tre volte all’anno. Alla messa si andava come a uno spettacolo sacro, il cui culmine era l’elevazione, contemplata con timore reverenziale.

All’inizio del cristianesimo invece, lo attesta san Giustino nel II secolo, l’eucarestia per la comunione poteva anche essere portata via e conservata in un cofanetto per darla agli eremiti nel deserto. Non solo. «Ad Alessandria e in tutto l’Egitto», scrive nel IV secolo san Basilio di Cesarea, «ogni fedele può conservare presso di sé l’eucarestia e, quando vuole, darsela da sé». Stiamo parlando di Basilio il Grande, fratello di Gregorio di Nissa, amico intimo di Gregorio Nazianzeno.

Uno dei tre grandi Padri Cappadoci. «Dal momento che il prete ha offerto il sacrificio e ha distribuito il sacramento, chi una volta l’ha ricevuto per intero, quando poi ne prende ogni giorno la sua parte, crede, a ragione, di continuare a partecipare al sacrificio e di riceverlo dalle mani di colui che glielo ha dato. Il sacerdote in chiesa dà la parte che gli viene richiesta. Chi la riceve la conserva in tutta libertà e la porta alla bocca di sua propria mano».

Un riflesso di quest’uso sopravvive oggi nell’ “antidoron” del rito bizantino: è quello che resta del pane consacrato sull’altare e distribuito nella comunione. “Doron” è il dono. Pane vero, non un’ostia, un pane fresco impastato con farina, lievito, acqua, a volte sale, fatto di due pezzi di pasta sovrapposti, simbolo delle due nature di Cristo. “Antidoron”, al posto del dono: il pane che alla fine della liturgia viene portato a chi non può andare in chiesa.

Cirillo vescovo di Gerusalemme, nel IV secolo racconta anche come veniva distribuito il pane eucaristico: «Quando ti accosti, non farti avanti con le mani protese né con le dita disgiunte: fa della tua mano sinistra un trono per la destra che deve ricevere il Re e nel cavo della mano ricevi il corpo di Cristo dicendo: Amen… Quindi accostati anche al calice del suo sangue… E mentre le tue labbra sono ancora umide, sfiorale con le mani e santifica anche i tuoi occhi, la tua fronte e gli altri tuoi sensi…».

L’unione con il corpo e il sangue del Re è fisica, materica, ricorda il gesto di Cristo al sordomuto, lo stesso gesto che il prete fa nel battesimo toccando orecchie e bocca del battezzato: “Effatà”, apriti, ascolta, respira lo Spirito. A noi, invece, un’ostia, a volte dal sapore ammuffito, non consacrata durante la messa, estratta dal tabernacolo. Che forza assumerebbe il simbolo con del buon pane fresco, magari intinto nel vino! Come direbbe ai nostri sensi l’eucarestia quello che realmente è: comunione intima con Dio, sacramento della Presenza, ingresso nella gioia del Signore.

Flaminia Morandi
NP giugno / luglio 2020

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