Le buone intenzioni

Pubblicato il 30-12-2022

di Renato Bonomo

Quando muoiono personaggi come Michail Gorbaciov o Elisabetta II d’Inghilterra è doveroso riflettere sul significato storico del loro operato. In particolare, visto l’attualità della crisi russo-ucraina, vale la pena approfondire l’eredità di Gorbaciov.
Sembrano passati secoli dagli anni in cui guidò l’URSS (1985-1991): per le generazioni Z e Alpha quel mondo è del tutto incomprensibile, tanto quanto può esserlo il medioevo.
È però importante rivivere la fine del socialismo reale dell'Unione sovietica, perché, attraverso la parabola politica di Gorbaciov, avremo uno strumento in più per capire che cosa sta succedendo ora in Russia.

Quando, nel marzo del 1985, il giovane Mikhail (aveva allora 54 anni, un’età molto bassa per gli standard della gerontocrazia sovietica) divenne segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), era pienamente consapevole della debolezza strutturale dell’URSS: un apparato industriale economico stagnante e precario; delle spese militari che rappresentavano un'insostenibile ipoteca sullo sviluppo del Paese; una situazione politica soffocata dall'onnipotente partito comunista; una società desiderosa di benessere.
Il programma politico di Gorbaciov era incentrato su una rivitalizzazione del comunismo attraverso due parole-chiave: perestrojka e glasnost’.
Ricostruzione e trasparenza. L'idea di Gorbaciov era ristrutturare il sistema, aprendo squarci di libertà in ambito economico e politico (lo Stato di diritto socialista). La convinzione profonda – ma decisamente errata – era che i russi non avrebbero mai messo in discussione il socialismo; semplicemente lo avrebbero voluto vedere riformato, nel solco dell’autentica tradizione leninista.

La società sovietica accolse però queste riforme in maniera opposta rispetto agli intendimenti di Gorbaciov.
Tra il 1989 e il 1991 accadde l'imprevedibile: il crollo del muro di Berlino, l'unificazione tedesca, la fine del controllo politico e militare dei Paesi satellite dell'Europa orientale (Patto di Varsavia), la disgregazione del monopolio politico del PCUS e delle istituzioni sovietiche.
Agli occhi degli occidentali, e non tanto dei russi, Gorbaciov ebbe due meriti: aver introdotto le libertà di opinione e di associazione in Russia e non aver risposto con la violenza alla progressiva frammentazione dell'impero sovietico (motivazione primaria per l’assegnazione del Nobel per la pace nel 1990).
Proprio l'introduzione delle libertà in Russia è un elemento da sottolineare.

In tutto il Novecento, i Russi hanno vissuto solo due momenti di effettiva libertà: il primo compreso tra la Rivoluzione di febbraio e quella di ottobre del 1917, il secondo proprio nel periodo delle riforme di Gorbaciov e dei primi anni di presidenza Eltsin. L'intera parabola sovietica dalla rivoluzione bolscevica del 1917 al 1991 fu completamente priva di libertà. Sorta come risposta all'autoritarismo zarista e liberazione della classe operaia, l'Unione Sovietica non riuscì mai ad essere uno Stato realmente democratico e libero. Sin dal 1917 prima Lenin e poi Stalin instaurarono un regime monopartitico violento e inflessibile. Dal 1956, la destalinizzazione non ha significato libertà, ma solo un controllo meno oppressivo.
Totalmente impreparata alla vita democratica, la società russa degli anni ’90 visse quella libertà in modo selvaggio e incontrollato, precipitando così in una crisi economica senza precedenti e in una feroce lotta per accaparrarsi i beni del morente Stato sovietico. Proprio dalle macerie di quel che restava dello Stato sovietico, emerse la figura di Putin che, da oscuro funzionario del KGB, sfruttò la sua conoscenza profonda del malessere del popolo russo e dei vecchi apparati di potere, per costruire un potere personale solido, fondandosi sul risentimento, sul desiderio di rivincita, sul sospetto nei confronti dell'Occidente.


Renato Bonomo
NP ottobre 2022

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