La rivoluzione dei piccoli gesti

Pubblicato il 27-02-2023

di Lucia Capuzzi

Sul tappeto, ci sono trentacinque allieve dai 9 ai 14 anni. Sono impegnate a riprodurre “alef”, la prima lettera dell’alfabeto in lingua “dari” sul quaderno. Lo tengono con soggezione, quasi avessero paura di imbrattarlo. È nuovo, come il resto del materiale: sussidiario, matita, gomma e temperino, dono della scuola. Tutti sono composti. Non si sente il vociare tipico delle classi delle elementari. Del resto, questa non è un’aula. È un “pezzo di soggiorno” separato da una tenda dal resto della casa, situata in un quartiere popolare di Kabul il cui nome non può essere rivelato per ragioni di sicurezza. Si tratta di una delle tante “scuole informali”. Un progetto di alfabetizzati che, al termine, non può rilasciare un titolo ma che cerca ugualmente di alleviare uno dei drammi cronici dell’Afghanistan: l’analfabetismo, soprattutto femminile. I due terzi delle donne non sa leggere né scrivere. Un effetto collaterale del conflitto ormai cronico.

Tessera cruciale del “grande gioco” asiatico, cerniera tra il mondo russofono e il Medio Oriente, tra il gigante indiano e il rivale pachistano, l’Afghanistan è stato avamposto della Guerra fredda prima – con l’invasione sovietica nel 1979 – e dell’offensiva al terrore, poi. Nell’intermezzo un sanguinoso conflitto civile da cui, negli anni Novanta, sono nati i taleban. Giovani dei campi profughi in prevalenza pashtun cresciuti senza donne, la cui unica identità è un’interpretazione ultraradicale dell’islam, basata sulla rigida separazione dei generi che hanno governato l’Afghanistan con il pugno di ferro tra il 1996-2001. Questi ultimi sono riusciti a sopravvivere alla caduta del loro regime a opera degli occidentali nel 2001. E a sconfiggere, con una resistenza strenua e cruenta, le forze Nato e Usa. Vent’anni e 150mila morti ammazzati dopo, l’Afghanistan è tornato al punto in cui si trovava nel 2001: l’Emirato. Un regime in cui i giovani – e soprattutto le giovani – si agitano inquieti tra le macerie del sogno di una democrazia possibile in cui sono stati cresciuti.

I taleban hanno trasformato il conflitto da loro stessi scatenato in una pace asfissiante che, in fondo, è l’altro volto della guerra. Ogni forma di dissenso è vietata insieme alla musica, alle scuole miste, gli abiti occidentali. Le donne, inoltre, non possono scoprirsi il volto, viaggiare per più di 65 chilometri senza un parente maschio, studiare dopo la sesta classe. Le ragazze, però, non sono disposte a rassegnarsi. Alcune protestano con libri e quaderni di fronte agli istituti da cui sono escluse. Altre si inventano modi creativi per studiare. Poche, in ogni caso, restano a casa. È la cosiddetta “rivoluzione dei piccoli gesti” combattuta con una penna in mano. «Ero bambina durante il primo Emirato, negli anni Novanta: solo i maschi potevano imparare a leggere all’epoca. Mi è dispiaciuto ma non potevo farci niente. Durante la Repubblica, avrei potuto recuperare però mi ero sposata da poco, poi la scuola era lontana e uscire di casa era pericoloso per i continui attentati. Ora, tra la crisi e il ritorno dei taleban, pensavo non fosse il momento, invece…», dice Mariam, 30 anni, avvolta in un lungo hijab (soprabito) nero, come la sciarpa che le copre la testa. A farle cambiare idea è stata la figlia, Asra, 13 anni, che sta accucciata accanto. Terminato il ciclo primario, l’anno scorso, la ragazzina avrebbe dovuto cominciare la settima classe, l’equivalente della scuola media. Con un repentino dietrofront rispetto alle promesse iniziali, però, i vertici dell’Emirato, hanno deciso di limitare l’educazione femminile alle elementari. «Solo temporaneamente », ha, tuttavia, precisato il ministero dell’Istruzione. Nessuno sa che cosa si intenda con tale espressione.

Asra, però, si è rifiutata di restare a casa nel frattempo. E ha convinto anche la madre a farlo. «È vero, io sono più avanti, so già leggere e scrivere. Ma ripassare mi fa bene. Non mi annoio affatto. È l’occasione per aiutare mia mamma. Lei si vergognava, diceva che era troppo grande. Ma io la seguo, passo passo, così mi tengo in allenamento», spiega con voce flebile quanto determinata. «Mio marito era d’accordo – aggiunge Mariam –. Le lezioni si svolgono all’interno del quartiere, non dobbiamo fare tanta strada. E, poi, ci conoscevamo già tutte da prima». Tamanà, 15 anni, si è trasferita a Kabul un anno fa da un villaggio della provincia di Nangarhar. «Là nessuna ragazza andava a scuola. E mio fratello non mi lasciava. Qui, però, è diverso. La maestra Parwana è una donna del quartiere. Non è stato facile ma mi ha dato il permesso. Sono felice di poter studiare, finalmente».

Anche Zinet, 15 anni, lo è. Due anni fa, avrebbe dovuto cominciare la settima classe ma le lezioni sono state interrotte a causa del Covid. «Poi sono arrivati i taleban e, per le ragazze della mia età, non ha più riaperto. Ero molto triste quando l’ho saputo. Quel giorno ho pianto e anche la mamma ha pianto.
Questo corso mi ha dato un po’ di speranza. Ho l’occasione di continuare a studiare, in attesa di poter continuare. Sogno di poter diventare un dottore», esclama d’un fiato la ragazzina, con il velo ricamato poggiato sulla bocca. Fa una piccola pausa poi si guarda intorno come temendo di aver detto troppo. E sussurra: «Se loro lo consentiranno».
 

Lucia Capuzzi
NP dicembre 2022

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