La profezia europea

Pubblicato il 17-12-2022

di Edoardo Greppi

L'Europa è il prodotto della storia. Fuori della storia, l’Europa non esiste. Al contempo, è un grande disegno politico.
Questa è l’Europa di cui si dovrebbe parlare. Invece, ai nostri giorni è diventata il bersaglio di frustrazioni varie e diverse, il capro espiatorio per politici incapaci di raccogliere e alimentare il grandioso progetto politico concepito sulle pagine della storia millenaria del nostro continente.

Si tende a dimenticare che “l’idea di Europa” viene da lontano, e trova il proprio fondamento nel pensiero dei tanti che, nei secoli, l’hanno concepita, elaborata, fatto oggetto di studi e diffusa con entusiasmo profetico.
Essa si fonda sulla concezione dell’esistenza di una civiltà comune, pur in un contesto storico politico plurisecolare di divisioni, ostilità, guerre.
Benedetto Croce scriveva nella sua bellissima Storia d’Europa nel secolo XIX (1930): «Le Nazioni non sono dati naturali, ma stati di coscienza e formazioni storiche; e a quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del Regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri s’innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non dimenticate già, ma meglio amate».

Questi pensieri “alti” hanno ispirato i padri fondatori delle istituzioni europee, contribuendo alla formazione di una generazione di statisti che, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, hanno voluto e saputo tradurre in progetto politico l’idea di Europa.
La guerra lasciava nel vecchio e fiaccato continente la scia di sangue di una trentina di milioni di morti.
Winston Churchill, nel formidabile discorso del 1946 all’Università di Zurigo, richiamando la tragedia del conflitto additava il “rimedio sovrano”: «Ricostruire la famiglia europea, e dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza e in libertà». Il grande statista britannico, il vero vincitore della guerra contro il nazifascismo, arrivava a invocare un “atto di fede nella famiglia europea” e un “atto di oblio verso tutti i crimini e le follie del passato».

Su queste basi, il 5 maggio 1949, veniva firmato a Londra lo statuto del Consiglio d’Europa, la più grande organizzazione politica del continente (che conta oggi 46 Stati membri, e ha nel suo seno quel grande monumento di civiltà che è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo). Un gruppo di sei Stati (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo), a seguito dell’iniziativa francese con la Dichiarazione Schuman del 1950, intraprendevano il cammino che li avrebbe portati alla firma dei trattati di Parigi e di Roma (1951 e 1957), e alla costituzione delle Comunità e poi dell’Unione europea. I grandi statisti del tempo (Jean Monnet, Robert Schuman, Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Paul Henri Spaak, con l’ispirazione di Altiero Spinelli e degli altri apostoli dell’integrazione europea) condividevano l’idea che l’Europa fosse davvero espressione di una civiltà comune, e che le sue nascenti istituzioni politiche sovranazionali dovessero essere fondate su un sistema di valori condivisi.

Che cosa resta oggi di tutto questo patrimonio? Spirano i venti dell’euroscetticismo, del pericoloso ritorno ai nazionalismi che hanno portato a due guerre mondiali, una sola guerra civile europea tra il 1914 e il 1945. Partiti e movimenti politici nati e cresciuti in un deserto di povertà culturale predicano oggi teorie “sovraniste” (!), immemori dell’insegnamento altissimo di Luigi Einaudi, che ammoniva circa i pericoli del coltivare “il mito dello Stato sovrano” (ne abbiamo parlato sul numero 7 di NP, NdR). Nell’epoca della globalizzazione (dell’economia, del terrorismo, delle comunicazioni, di internet e delle migrazioni di massa, delle pandemie), vi è chi follemente invoca e costruisce muri, dimenticando le lezioni dolorose della storia del secolo scorso.

Da anni i politici del continente imputano all’“Europa” i loro fallimenti, la loro incapacità di governare sistemi complessi. Un grande salto si è prodotto: dall’Europa degli statisti degli anni ’40 e ’50 siamo passati ai per lo più modesti politici contemporanei. Vi è una frase che si è soliti attribuire a De Gasperi. La paternità non è sua, anche se evidentemente la conosceva e la condivideva, bensì del predicatore americano James F. Clarke, nel 1870: «Un politico pensa alle prossime elezioni; uno statista alla prossima generazione. Un politico cerca il successo del suo partito; lo statista quello del suo Paese. Lo statista aspira a guidare, mentre il politico si accontenta di vagare». Né Clarke né De Gasperi pensavano che saremmo arrivati a essere governati non dalle idee e dai valori forti ma dai sondaggi.

Il futuro dell’Unione europea, del grande progetto politico non sta nella gestione del mercato o della moneta, né tanto meno può essere affidato a nuovi muri. Il progetto politico è in pericolo, se i governi del nostro continente non sapranno abbandonare populismi, sovranismi, muri e altre simili sciocchezze per recuperare il grande patrimonio di idee e valori che sono alla base della costruzione dell’Unione europea.
 

Edoardo Greppi
NP ottobre 2022

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