In una crisi senza fine

Pubblicato il 27-02-2023

di Rosita Di Peri

Il 17 ottobre del 2022 è ricorso il terzo anniversario della thawra (letteralmente rivoluzione) che ha visto i libanesi scendere massicciamente in piazza per protestare contro il malgoverno, la corruzione dilagante e il clientelismo. Le proteste hanno aperto un triennio devastante per il Paese: la crisi economica, che ha portato alla dichiarazione di default da parte dell’ex Primo Ministro Hassan Diab nel marzo del 2020, si è intrecciata con il diffondersi della pandemia. Su tale quadro, poi, si è innestata l’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto dello stesso anno che ha provocato morte e distruzione in buona parte della capitale libanese e i cui responsabili non sono ancora stati individuati.
Il compenetrarsi di queste crisi multiple ha esacerbato la crescita delle diseguaglianze sociali, ha acuito la già presente carenza di servizi di base (elettricità, acqua potabile...), portando a un progressivo impoverimento della popolazione (secondo le stime circa l’80% dei libanesi vive sotto la soglia della povertà) e all’esposizione del Paese alle crisi globali e regionali.

LE ELEZIONI LEGISLATIVE DEL 2022
In un clima di incertezza generale e con un governo dimissionario, il 15 maggio del 2022 si sono tenute le elezioni legislative, appuntamento molto atteso e carico di aspettative soprattutto alla luce delle proteste del 2019 durante le quali i libanesi hanno richiesto a gran voce il ricambio della classe politica. Eppure, nonostante il forte impegno per il cambiamento, la preparazione di liste elettorali lontane dai partiti politici tradizionali e dai grandi zuama che governano la società libanese, i risultati delle elezioni hanno nuovamente confermato vecchi equilibri e alleanze. Le forze del cambiamento, che pure, complessivamente, sono riuscite a ottenere 13 seggi in Parlamento (su 128), non sono in grado, da sole, di imporre un deciso cambio di rotta a un sistema caratterizzato da una profonda corruzione e da un clientelismo ancora largamente diffuso. Tuttavia, sebbene i risultati raggiuti possano apparire tutt’altro che soddisfacenti, anche solo la prospettiva di poter bloccare, con il proprio voto, l’iter legislativo, appare come una piccola vittoria. Ciò che sembra dall’esterno, tuttavia, è una ulteriore frammentazione del Parlamento e la prospettiva di un blocco o di un rallentamento delle sue funzioni.
Le elezioni, dunque, non hanno stravolto il panorama politico libanese come i manifestanti auspicavano. I 13 seggi conquistati dalle forze del cambiamento, la vittoria di perfetti sconosciuti in alcuni distretti elettorali che parevano inespugnabili, la sconfitta di alcuni “volti noti”, sono tutti segnali incoraggianti e, di sicuro, tali risultati non sarebbero stati raggiunti senza l’impegno costante nelle proteste partite nel 2019. Tuttavia, passata la febbre elettorale, il paese resta in una situazione di precarietà sempre più evidente in cui è difficile far fronte alle emergenze.
Né la classe politica libanese sembra avere contezza della necessità di avviare una road map per le riforme come richiesto da più parti. Anche la possibilità che si prospetta all’orizzonte di poter sfruttare i giacimenti di gas presenti nel Mare Mediterraneo di fronte alle coste del Paese, non solo non produrrebbe i suoi frutti nel breve periodo, necessitando di tecnologia che il Libano non possiede e che dovrebbe attrarre dall’estero ma, al contempo, non condurrebbe a risultati effettivi senza serie riforme. L’afflusso di dollari proveniente dalla produzione di gas rischierebbe infatti, senza un serio programma di rinnovamento, di incrementare le reti clientelari preesistenti.

QUALI PROSPETTIVE?
In una tale situazione l’evoluzione socio- politica del paese sembra dipendere dall’andamento di due elementi. Il primo concerne, ovviamente, la crisi economica; il secondo è legato al ruolo di Hezbollah. Per quanto riguarda il primo aspetto va ribadito che, sebbene la crisi del sistema economico e finanziario libanese sia stata in parte determinata dalla graduale rentierizzazione dell’economia (il Libano è un Paese ormai quasi del tutto privo di un sistema produttivo autonomo e deve importare la pressoché totalità di beni primari), le radici di tale sistema sono da ricercarsi nel laissez-faire che da sempre è stato la matrice dell’economia libanese.
Tale struttura si è rafforzata dopo la fine della guerra civile inscrivendosi nelle traiettorie del neoliberismo globale che ne ha esasperato alcuni aspetti. In particolare su tale sistema si è innestato il modello consociativo libanese deviato ossia un sistema penetrato da una onnipresente corruzione e dall’intreccio tra una società largamente governata da relazioni cliente-patrono (soprattutto nelle campagne e nei villaggi) e da un confessionalismo che pone al di sopra dei diritti di cittadinanza l’appartenenza religiosa. Il modello consociativo deviato è stato in grado, negli anni, di perpetuare sé stesso divenendo impermeabile al cambiamento e sfruttando sempre di più le risorse dello stato non per il benessere dei propri cittadini ma per interessi particolaristici.
La resilienza di un tale sistema rende difficile prevedere un cambiamento nel breve-medio periodo senza un ricambio totale e strutturale della classe politica (fatto che sembra assai improbabile anche alla luce dei recenti risultati elettorali) e, soprattutto, della gestione consociativo/confessionale della politica e della società.
Il secondo elemento riguarda la presenza di Hezbollah all’interno di tale sistema. La sua forza si è ancorata a un processo di legittimazione che lo ha visto protagonista dopo la fine della guerra civile (anche come baluardo della resistenza contro Israele) e che ha avuto il suo acme politico nell’accordo siglato nel 2005 con il Free Patriotic Movement di Michel Aoun (il Presidente della Repubblica uscente), uno dei principali partiti politici maroniti presenti nel Paese. Tuttavia, una serie di prese di posizione del partito a fronte di eventi inaspettati ha contribuito ad alterare questo quadro. La prima è legata alle proteste del 2011 e alla decisione da parte di Hezbollah di sostenere Bashar al Assad nella repressione del suo popolo. La seconda è connessa alle proteste del 2019 e al ruolo del partito al loro interno.
A iniziali dichiarazioni a sostegno dei manifestanti da parte del segretario del partito Hassan Nasrallah, sono seguite intimazioni a ritirarsi dalle piazze accompagnate, poi, dall’invio di casseurs tra le tende montate nelle piazze delle proteste per disperdere i manifestanti. Hezbollah sembra aver dimostrato con tali atteggiamenti di avere a cuore, come le altre forze politiche libanesi avverse al cambiamento, il mantenimento di uno status quo funzionale a preservare i propri interessi politici ed economici. L’aura di novità e cambiamento che aveva caratterizzato l’operato del movimento/partito fin dalla sua comparsa sulla scena politica libanese sembra essersi offuscata pesantemente e, durante le proteste del 2019, immagini e bandiere del partito sono state rimosse o date alle fiamme anche nel sud del Paese, una delle aree controllate dal partito.

La mancanza di lungimiranza e di una chiara strategia politica stanno portando il Paese a un punto di non ritorno. Sempre più frequenti sono gli atti esasperati di una popolazione allo stremo e, a testimonianza del deteriorarsi della situazione, stanno anche ricomparendo, in alcune zone del Paese, malattie che si pensavano debellate come il colera. A oggi, la quarta seduta del parlamento non ha ancora portato alla formazione di un nuovo governo e il 31 ottobre è scaduto anche il mandato del Presidente della Repubblica Michel Aoun. In preda alla minaccia di vuoto istituzionale il Libano si avvia verso un inverno privo di prospettive.
 

Rosita Di Peri
NP dicembre 2022


Rosita Di Peri
Associate Professor in Political Science and International Relations,
Coordinator of the Summer School 'Understanding the Middle East'
https://www.tomideast.com/,
Department of Culture, Politics and Society - University of Turin

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