Il mio nel nostro

Pubblicato il 16-02-2023

di Cesare Falletti

Siamo, o siamo stati, la generazione che credeva di possedere il futuro, e poi, lo sappiamo, il Covid e ciò che sta succedendo da troppi mesi hanno rovesciato parecchie certezze.
Anche io me lo sono preso e spero di essere uno degli ultimi. In questi giorni di isolamento, ho trovato in una relazione, di cui ho dovuto correggere l’italiano, una frase che come spesso succede mi ha interpellato.

È una relazione sulla formazione che recita: «Tutto dura finché dura e quando appare la difficoltà non viene affrontata, ma evitata». Purtroppo ne abbiamo l’esperienza, ma oso dire che, come frase, è troppo pessimista. Il fatto è, e l’autore lo riconosce, che da una parte si vuole, e giustamente, una vera libertà, che tuttavia non sempre è “vera” e si capovolge in capriccio o pretesa egocentrica, mentre la libertà è stata data dal Signore perché sia il clima di un bene comune.
Dall’altra la società o le società di tradizione cristiana, hanno perso il senso della grandezza dell’obbedienza, colonna portante del comportamento e come ricerca di bene comune, e per vari decenni si è affermato, a mo’ di sfida, «l’obbedienza non è più una virtù». Effettivamente allora non si poteva dar loro torto, visto il clima degli anni prima della rivoluzione del ‘68. L’obbedienza non era più una virtù, che è forza, ma un adattarsi, piegarsi, per poter fare ciò che si vuole. Se nell’obbedienza non c’è amore, solidarietà, attenzione reciproca, siamo fuori strada ed essa scompare dalla lista delle cose che rendono bello il mondo. Tutte le cose belle possono essere piegate a fini egoisti ed egocentrici e il mondo si vela di grigio.

Ritornando alla nostra frase, dobbiamo saper distinguere fra ciò che ci riguarda personalmente e riguarda solo noi, e decidere di abbandonare una direzione, un lavoro, una fatica, ma non una responsabilità, perché questa ci toglie dalla sfera propria e ci mette in un mondo che non è più nostro. Non possiamo fare secondo il nostro gusto ciò che ci mette in relazione con qualcuno, ciò che ci conferisce una responsabilità e tutto ciò che implica una persona oltre a noi. L’altro ha una dignità pari alla nostra, che non possiamo ferire solamente perché seguiamo ciò che ci fa comodo o ci piace. L’altra persona ci fa entrare nella sfera del bene comune, che è sempre più importante del bene proprio, perché questo non può esistere se non nella sfera di quello.

Con questo discorso voglio dare una luce critica a quel sentimento che ho citato all’inizio: «Tutto dura finché dura e quando appare la difficoltà non viene affrontata, ma evitata ». La difficoltà non deve essere evitata, perché in questo modo non solo faccio del male agli altri, ma anche a me stesso. Il mio bene non dura se non è ancorato nel bene degli altri. Prima o poi rimarrei solo, ma non della “Beata solitudine, sola beatitudine!”, ma di quella portatrice di noia e angoscia che devasta la nostra società apparentemente colma di tutti i beni possibili. È l’esperienza di tante avventure alla ricerca della libertà, del piacere, della ricchezza, che si riflettono in quella del Figliol Prodigo, ridotto alla compagnia dei porci, a cui doveva contendere un misero cibo, ma che purtroppo non finiscono o non possono finire tutte in happy end come quella della parabola evangelica. Dai disastri dell’egoismo troppo spesso non si può tornare indietro. Il “tutto finché dura” non deve dirsi nella scelta di un dono di sé, ma dell’illusione del riprendersi in mano le promesse e gli impegni per una vita in cui non si è più capaci di avere vere relazioni, ma solo di succhiare un po’ di benessere da quanti ci passano davanti.
Il vero bene non è essere sciolti dai legami che ci uniscono agli altri, ma dalle catene che ci rendono schiavi di noi stessi.
 

Cesare Falletti
NP novembre 2022

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