Federica le caprette di Heidi

Pubblicato il 25-02-2020

di Arsenale della Piazza



La mia esperienza al Sermig è iniziata con il mio tirocinio universitario durante la triennale al Dipartimento di Psicologia.
Non ero a conoscenza di questa realtà, fino a quando non l’ho visto citata nell’elenco delle sedi possibili per svolgere il tirocinio. Ora, quattro anni dopo, faccio ancora parte di questa realtà, per mia scelta, come volontaria.
Non provengo da Torino, vivo in un piccolo paese di montagna, dove il modo di vivere è decisamente diverso dalla realtà cittadina.
Per raggiungere Torino, e quindi il Sermig, devo compiere un’impresa eroica: due ore e mezza di pullman. Non ho mai vissuto in città a causa di motivi economici, ma in primis per mia scelta: vivere in un piccolo paesino di montagna sperduto e abitato dalle caprette di Heidi in realtà mi piace molto.
Le ore di viaggio che al sabato mi separano dal Sermig e dai bimbi e ragazzi che lo frequentano non sono però un peso, non lo sono mai state. Per comprendere cosa mi spinge a fare volontariato a due ore e mezza da casa è necessario spiegare meglio cosa vuol dire essere vicina di casa di Heidi. Nel mio paesino tutti si conoscono, se non si conoscono chiedono, se non sanno spettegolano. È un divertimento vedere le nonnine seduta alla solita panchina spettacolare su tutti gli abitanti del posto.
Siamo molto più uniti rispetto ai cittadini, forse perché le nostre famiglie si conoscono da generazioni, forse perché teniamo particolarmente alla nostra storia ed alla nostra identità, forse perché teniamo particolarmente al “tramandare”, forse perché fino alla terza elementare non si parla italiano, ma piemontese. Le feste di paese sono sempre attese; è un amore-odio, ma puntualmente siamo sempre presenti. Dove vivo io sono ancora molto vivi i racconti sulla seconda guerra mondiale, tramandati da chi l’ha vissuta in prima persona: mio nonno, il quale mi ha trasmesso molto, era uno di questi, e io sono cresciuta con una sensibilità particolare rispetto all’argomento. Inoltre nella mia valle montana sono presenti due realtà religiose, una delle quali, ahimé, non è molto conosciuta a Torino.
I valdesi nelle mie valli rappresentano una buona percentuale degli abitanti; l’altro mio nonno, che non ho mai conosciuto, era valdese e, anche se sono cattolica, sento molto le usanze valdesi. Il 16 febbraio non manco mai ai falò in memoria dei valdesi perseguitati a causa del loro credo, amo questo avvenimento. Sono enormi falò costruiti per mesi prima della festa, sui prati delle montagne; la sera del 16 febbraio vengono accesi tutti insieme e le montagne si illuminano tutte allo stesso momento. Attorno a ogni falò si svolge una piccola festa che continua poi il 17 febbraio, giorno festivo ufficiale. Insomma, la percezione di appartenere ad una comunità, dove vivo io, è molto forte. Naturalmente anche Heidi aveva dei lati negativi. A fronte del forte senso di comunità vi è una percezione dell’altro come diverso a prescindere. Un classico. Ecco quindi che la maggior parte degli abitanti del mio paese guarda male chi ha una fisionomia diversa dal tipico piemontese rude, eviti chiunque si presenti come nuovo nella zona e non ami parlare con chi proviene da altri paesi. Non per odio; sospetto per paura.
Sembra che in ogni famiglia a volte nasca una pecorella nera: eccomi qua!
Nulla di serio certo, ma ovviamente, le mie idee diverse rispetto alla maggioranza danno spesso origine a discussioni di vario livello, a casa e con gli amici.
Soprattutto questi ultimi puntualmente il sabato sera mi chiedono perché io mi spari (detto alla buona) due ore e mezza di pullman, pagando quattro biglietti (pullman e tram), un panino, per un’intera giornata fuori casa e soprattutto senza chiedere di essere pagata.
Aaaaaaahh dalle parti di Heidi sta cosa è tragica.
È da circa quattro anni che io rispondo sempre alla stessa maniera.
Il Sermig per me rappresenta una parte importantissima nella mia storia di vita.
Durante il tirocinio non avevo ancora compreso cosa stavo facendo e cosa, soprattutto, il Sermig stava facendo per me. Probabilmente non l’ho compreso ancora ora. Qui, mi è stato insegnato (dai bambini in modo particolare) che il detto “siamo tutti uguali” è in realtà un’enorme menzogna. È un detto per cui una volta mi battevo, perché il contrario “siamo tutti diversi” mi faceva paura, gli avevo dato una connotazione negativa, per ragioni fondamentalmente sociali. È stato un mio enorme sbaglio.
Al Sermig ho imparato che siamo tutti diversi e queste diversità mi affascinano sempre. È davvero bello rapportarsi con culture, costumi, usanze diverse. Come studentessa, ma soprattutto amante della psicologia, resto sempre affascinata dai modi diversi che ogni persona ha di pensare e di rapportarsi col mondo. “Il mondo è bello perché è vario” mi rappresenta molto di più se vogliamo; la libertà di essere ciò che si è e l’orgoglio soggettivo per la propria persona e per la propria storia.
Ogni sabato me lo insegnano i piccoli gnometti dell’Arsenale della Pace. Il Sermig poi mi dà speranza: inutile dilungarsi sugli ultimi aspetti del pensiero societario attuale, basti sapere che i dettagli dei racconti di mio nonno sulla guerra mi tornano ogni giorno in mente. Per me, varcare la soglia del Sermig e stare con i bambini rappresenta una boccata d’aria importante; ecco, ogni bambino, quando gioca, quando ride, quando chiede scusa o quando combatte per l’amicizia, alimenta la mia speranza, mi insegna qualcosa di nuovo.
Da parte mia offro solo una piccola parte del mio tempo, non quanto vorrei. Il mio impegno, per i bimbi in particolare, è offrire un sorriso o un abbraccio quando necessari, un po’ di conforto, un aiuto se possibile. Nulla di più. Spero in qualche modo di riuscirci e di sbagliare il meno possibile.
Queste sono alcune argomentazioni che riporto ai miei conoscenti e che a mio parere giustificano abbondantemente la non richiesta di uno stipendio; ciò che viene scambiato al Sermig non è economicamente quantificabile; è mille volte più importante, è millemilamilioni più importante, come direbbero due bimbi dell’Arsenale.
L’Amore che circola al Sermig è contagioso e fa veramente del bene.
La cosa più bella per me è vedere come questo amore prenda forma in realtà da circostanze il più delle volte tristi. Eh sì, perché ho anche compreso un po’ meglio di prima, che la tristezza non ha età; ma ho anche compreso che l’amore che nasce dalla sofferenza è più forte. Non so se mi riesca bene, ma cerco sempre di portare con me questo pensiero.
Lascio immaginare come mi guardino i miei amici in pizzeria dopo queste parole; normalmente, qualcuno esordisce ghignando:
“No ma fammi capire, tu veramente credi a tutte ste cose, secondo te sono veramente possibili?”.

Non ho ancora capito se più per pazzia o più per convinzione, ma tendo sempre di più alla seconda; comunque di solito rispondo:
“Sì, per me è possibile… Per me si può fare!”.
Chi, meglio di tutti, può trasmettere tutto ciò? Naturalmente i bambini, da cui tutti dovremmo imparare. Per questo non smetterò mai di ringraziarli.

Federica Bertin

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