Don Fausto vive

Pubblicato il 23-09-2021

di Chiara Genisio

«Il nome esprime un'identità». E quando si parla di carcere questo pensiero esprime molto di più. Per questo motivo la determinazione con cui Teresa Mazzotta, direttrice del carcere di Bergamo, si è impegnata per ottenere di intestare a don Fausto Resmini questo istituto, significa che ha scelto di fare propri i suoi insegnamenti, di farne tesoro, custodirli e mantenerli vivi. Significa aver scelto di dirigere questo luogo come spazio di rieducazione e non solo di detenzione. Don Fausto ha iniziato a lavorare nel carcere bergamasco nel 1987 come volontario, ne diventa cappellano nel 1992.
Per tutti questi anni rimane un punto di riferimento per i detenuti, ma anche per tutti coloro che vivono, lavorano, operano con e dentro il penitenziario. Fino a quando lo scorso anno è deceduto dopo aver contratto il Covid.

Ai microfoni di Radio Vaticana in occasione dell'intestazione del carcere a nome del sacerdote, la direttrice ha ricordato che don Fausto «credeva nel recupero individuale e sociale delle persone private della libertà personale. Attraverso un dialogo costante e prendendo le mosse dal trauma conseguente all'ingresso in Istituto, senza voler influire sulla libera scelta dell'individuo, interagiva con lui alla stregua della maieutica socratica, ne sollecitava un'autonoma presa di coscienza di eventuali errori e delle conseguenze pregiudizievoli che ne erano derivate in un'ottica di liberazione dal peso della sofferenza. Trasmetteva valori che partivano dal rispetto verso se stessi e verso gli altri, alleviando così la sofferenza nella prospettiva del futuro reinserimento sociale». Ricorda il suo rapporto con lui: «Mi manca l'impossibilità di condividere un'idea, un progetto. Tutti noi oggi condividiamo il ricordo di un grande uomo, di un grande sacerdote. La prospettiva della realizzazione della dignità della persona è stata la finalità che ha contrassegnato la vita e la sua opera».

A sottolineare il valore di questa intitolazione (19 aprile), ha voluto essere presente anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia, nel suo intervento incentrato sull'attualità del messaggio di don Resmini, sull'idea non distruttiva ma generativa che comprenda «il travaglio di un cammino spesso lungo e sempre segnato da tre momenti: il riconoscimento dell'errore, la richiesta di perdono e la riconciliazione con le vittime», ha sottolineato che «quello riparativo è un aspetto della nostra giustizia ancora tutto da sviluppare. Come ho avuto modo di dire anche in Parlamento, mi sta molto a cuore e desidero sostenerlo attraverso l'azione di governo, per quanto sarà nelle mie possibilità».


Chiara Genisio
NP maggio 2021

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