Contemplazione

Pubblicato il 29-01-2022

di Matteo Spicuglia

Di tutto colpisce lo sguardo. Quella connessione diretta che non ha bisogno di parole, di spiegazioni, di chissà quali concetti. Basta l'amore, il legame viscerale che c'è tra un padre e un figlio. Basta quello e tutto il resto scompare. Anche se il “resto” è pesante come un macigno.

Siamo nel distretto di Reyhanli, nella provincia turca di Hatay, a due passi dal confine siriano. Si vede Munzer El Mezhel, un uomo senza gamba con in braccio il suo bambino Mustafa, nato senza gambe e braccia.
Entrambi vittime di guerra. Munzer è un profugo arrivato in Turchia nel 2016, portato via da Idlib dopo un attacco aereo. Quel giorno era al mercato con la moglie incinta, quando furono colpiti dalle bombe del regime di Damasco. Sopravvissuti per miracolo, ma segnati per sempre: Munzer mutilato, Mustafa nato da lì a poco, malformato a causa dei farmaci dati alla madre per limitare gli effetti del gas nervino. Dopo cinque anni, quelle ferite ancora esistono, ma esiste anche la tenerezza che passa dai gesti, dai sentimenti, anche dalla felicità degli occhi di un figlio che non smettono di perdersi negli occhi di un padre.
Tutto in una foto intitolata Hardship of Life (La difficoltà della vita) scattata dal fotografo turco Mehmet Aslan, vincitore del Siena International Photo Awards.

È incredibile vedere come un'immagine sia in grado di fissare senza retorica la follia della guerra e il dolore innocente dei civili che è quasi inarrestabile. «Questa foto è arrivata al mondo – hanno detto i genitori di Mustafa al Washington Post – abbiamo cercato per anni di farci sentire per aiutare nostro figlio, abbiamo girato ogni ospedale, ogni villaggio, ma non abbiamo ottenuto nulla. Faremo di tutto per dargli una vita migliore».
Quanti come loro! Una realtà – solo in Siria – da 13 milioni di sfollati, circa il 60% della popolazione: 6,6 milioni di rifugiati accolti nei Paesi vicini e 7 milioni di sfollati interni.
Non solo numeri, ma storie concretissime, vite che quasi sempre non riusciamo a visualizzare, né tantomeno a immaginare.

Una foto può fare il miracolo, ma è realmente così? In passato ci sono state immagini che hanno davvero fermato il tempo. Tra tutte, quella del grido disperato di Kim Phùc, la bimba protagonista della foto simbolo della guerra del Vietnam: nuda, in lacrime, ustionata dalle bombe al napalm.
Una foto in bianco e nero che riuscì a smuovere l'opinione pubblica dell'epoca, facendo crescere gradualmente l'opposizione ad una guerra assurda.
Oggi è tutto più complicato perché siamo bombardati da immagini, da sollecitazioni e input sempre diversi.
Viviamo di sentimenti, ma molto spesso di sentimentalismi. Ci commuoviamo, ma rimaniamo quasi impantanati in un cortocircuito che fa piombare le emozioni in forme più o meno dichiarate di consumismo. Il rischio è altissimo perché se un'emozione non indica una strada di cambiamento, non serve a nulla. Stessa cosa se una lacrima di commozione non suscita indignazione, una presa di coscienza, un no deciso che deve trasformarsi in scelte di vita.

Obiezione: ma cosa si potrebbe fare davanti a una foto? Sicuramente non fermarsi lì, ma conoscere, ascoltare, imparare davvero a mettersi nei panni degli altri per andare oltre l'indifferenza.
Cominciare magari dai protagonisti di Hardship of Life, una foto che andrebbe contemplata, non solo vista.


Matteo Spicuglia
NP novembre 2021

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok