C'è posto per tutti

Pubblicato il 30-12-2020

di Francesca Fabi

Il Brasile è un Paese immenso.
Oltre 200 milioni di abitanti, un territorio sterminato e una società divisa, segnata da contraddizioni profonde.
Basta pensare che il 30% del reddito annualmente prodotto è concentrato nelle mani di appena l’1% della popolazione. Una realtà visibile soprattutto in metropoli come San Paolo che da sola fa 12 milioni abitanti.
«A volte è un’unica strada a dividere un grande quartiere di lusso, da un terreno occupato da centinaia di baracche di legno e lamiera». Marco Vitale sa di cosa parla. È uno dei missionari dell’Arsenale della Speranza del Sermig, che ogni giorno accoglie più di 1200 persone di strada. «Contrasti così forti, spiega Marco, riguardano tutti gli ambiti della vita sociale. Per esempio, l’educazione. I figli delle famiglie benestanti sono in grado di frequentare scuole private con professori e strutture migliori, la maggioranza della popolazione invece le scuole pubbliche, sovraffollate e spesso prive di manutenzione. Così avviene nella sanità. Chi può pagarsi un’assicurazione accede a ospedali di altissimo livello.
Tutti gli altri spesso non riescono a ricevere farmaci, personale ospedaliero e posti letto dignitosi».

La pandemia ha aggravato la situazione?
Sicuramente. Di certo, ha acuito le divergenze politiche: da un lato ci sono i partiti che si sono schierati per una chiusura di tutte le attività commerciali.
Dall’altra, le forze che appoggiano il presidente Bolsonaro che ha liquidato il covid come una “febbriciattola” che non può fermare l’economia. Aggiungo che sono emerse anche divisioni sul valore della vita delle persone. Di fronte al numero di morti in costante aumento, ci sono stati tanti che hanno chiesto misure urgenti. Altri si sono presto abituati, esprimendo semplicemente un: vabbè, la vita è così.

In un contesto come questo i poveri sono considerati degli scarti, come se alla fine fossero responsabili della loro situazione. Come mai?
Questa visione è anche il frutto di una storia di sofferenza. Il Brasile nasce come colonia e all’epoca una buona parte dei suoi abitanti erano ridotti in schiavitù. Le conseguenze ci sono ancora. Per esempio, è difficile che uomini e donne di colore occupino posizioni di responsabilitá di governo o nel mondo delle imprese. Allo stesso modo, i locali più influenti e alla moda non hanno clienti neri. Sono pochissimi poi i bimbi di colore che frequentano le elite delle scuole private della cittá. Molte volte un certo tipo di religione rafforza e giustifica questo scenario. La povertá è vista come il segno di una lontananza da Dio, di una mancanza di fede in lui. La ricchezza è invece il segno della sua benedizione.
In questa visione dunque, chi vive nella miseria è perché ha poca fede.

Come si fa a rompere questa distanza?
Per rompere gli abissi che esistono tra le diverse fascie sociali, vincendo le paure che stanno paralizzando le persone, occorre trasformare la città in un luogo dove c’è posto per tutti. In questo senso, l’Arsenale della Speranza vuole essere una casa per tutti. Neri e bianchi.
Poveri e abbienti. Gente istruita e analfabeti. Chi ha bisogno di aiuto e chi può offrire il proprio aiuto. Qui, tutti possono trovare casa. Possono scoprire che le tante differenze possono essere un’opportunità. Una casa di Dio, dove tutti sono accolti perché tutti siamo suoi figli e figli amati. E sia chiaro, non è utopia. È quello che stiamo vivendo da 24 anni, giorno e notte, senza mai fermarci.

Le relazioni interpersonali possono ricomporre divisioni così profonde. Puoi farci qualche esempio?
Ce ne sarebbero tantissimi. Tutto avviene quando le persone si fanno ponte, si lasciano commuovere da un problema che hanno visto e si impegnano ad alleviarlo, coinvolgendo amici e conoscenti. Penso a una ragazza che facendo volontariato in Arsenale si è accorta di quanto fosse necessario l’uso delle mascherine per evitare il contagio tra gli accolti. Ed ecco che ha ottenuto del tessuto da un conoscente e chiesto alla nonna e alle zie di cominciare una produzione su larga scala di mascherine di cotone. In questi giorni sono già arrivate a produrre più di tremila mascherine, senza dover uscire di casa. C’è poi una signora che sapendo della nostra necessità di alimenti, sta coinvolgendo tutte le persone del condominio.
Ora, ogni settimana lasciano sul suo pianerottolo sacchi e sacchetti di riso e fagioli. Un nostro amico è anche uno dei responsabili di una scuola di samba del quartiere. Ha raccontato delle nostre richieste agli altri membri del gruppo, e da settimane non smettono di raccogliere sapone, dentifrici e lamette per aiutarci. Sono decine e decine di storie che avvengono, solo perché qualcuno diventa un ponte tra mondi della città che difficilmente entrerebbero in contatto.

Cosa può insegnare l'esperienza brasiliana all'Occidente?
Alleviare le sofferenze dei più poveri e farlo insieme, diventa la grande occasione per superare ogni tipo di divisione.
Dom Luciano Mendes de Almeida diceva che i poveri non sono il problema ma la soluzione del problema.
Ancora una volta capiamo l’importanza di queste sue parole. Chi non è in condizione di trovare rifugio in questa epidemia, da problema, può diventare un’opportunità.

In che senso?
Se abbiamo il coraggio di offrire un riparo sicuro, del cibo, una parola amica, con dei turni sapienti, tutto questo ci obbligherà a organizzarci, a uscire dal nostro piccolo punto di vista, dai muri dentro ai quali ci siamo barricati.
Ci obbligherà a uscire dal nostro egoismo. Un po’ alla volta saremo capaci di conoscerci, stimarci, costruire relazioni: una comunità nuova, una città nuova.

Francesca Fabi
Intervista a Marco Vitale


FOCUS
Novembre 2020

 

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