Bairro de Boa Esperança

Pubblicato il 21-02-2023

di Roberto Cristaudo

Ero in vacanza sull'isola di Boa Vista nell'arcipelago vulcanico di Capo Verde, al largo della costa nord-occidentale dell'Africa. Stavo in uno di quei mega villaggi turistici privi di identità, tutti uguali, omologati in un format senza carattere, esportabile in ogni parte del mondo.

Dopo un paio di giorni di risveglio muscolare, gioco aperitivo e torneo di freccette, iniziavo a non sopportare più quei privilegi da turista in crociera e mi sentivo come i personaggi descritti da David Foster Wallace in Una cosa divertente che non farò mai più.

Decisi allora di avventurarmi all'esterno per fare due passi e mi diressi verso la città di Sal Rei, a circa 5 km dalla struttura in cui soggiornavo. Circondata dalle saline da cui prende il nome, Sal Rei attira persone dalle altre isole in cerca di lavoro e un tempo era un centro molto importante per la raccolta del sale. Oggi l'immigrazione è principalmente dovuta alla grande richiesta di personale da impiegare nei villaggi turistici, come quello in cui stavo, dando vita ad alcune favelas o bairros, come vengono chiamati da queste parti. Sono spesso luoghi fatiscenti, senza acqua potabile, né fognature ed energia elettrica, ma che a loro modo provano ad avere un po' di dignità.
Avevo lasciato il villaggio turistico da circa un'ora, era mezzogiorno il sole cadeva a picco sulla mia testa e non c'era modo di ripararsi.

Il caldo era diventato insopportabile e rimpiangevo l'aria condizionata, la piscina e la possibilità di disporre a mio piacimento di cibo e bevande del trattamento all-inclusive. Chiesi informazioni alle poche persone che man mano incontravo e tutte mi indicavano bar e ristoranti gestiti da Italiani, decantando il caffè espresso o la pasta alla bolognese che avrei potuto trovare sentendomi a casa. Ma io non volevo sentirmi a casa, non volevo un caffè italiano, volevo solo una birra fresca, o una bevanda locale e un po' di ombra per riposare e dissetarmi in santa pace.

Arrivai alla fine della strada, oltre c'era solo l'oceano. Un gruppo di bambini stava giocando con un pallone sgonfio mentre altri trasportavano grandi bidoni colorati. Mi accolsero sorridenti. Una serie di case fatiscenti adagiate a casaccio lungo la costa mi incuriosì spingendomi a entrare in quel dedalo di stradine. Senza saperlo ero arrivato nel Bairro de Boa Esperança, la più grande favela di Boa Vista.

Nella favela non c'è acqua potabile. Viene acquistata a 15 centesimi al litro, trasportata in bidoni di plastica da 25 litri e utilizzata con parsimonia per bere e cucinare, mentre per lavarsi c'è l'acqua del mare. Gli adulti lavorano nei villaggi turistici dove l'acqua potabile serve per riempire grandi piscine, dove c'è cibo a volontà e aria condizionata ovunque, ventiquattro ore al giorno. Il turismo è tollerato dagli abitanti della favela perché porta lavoro e soldi più facili da ottenere rispetto al duro lavoro del pescatore, comunque ancora ampiamente svolto.

Bisogna richiedere un permesso e pagare una tassa per costruire una baracca, ma nessuno è proprietario dell'abitazione e del terreno dove sorge, che rimane a disposizione dello Stato. Durante la vacanza, ritornai più volte nella favela. Ogni volta mi vergognavo per quell'ingiustizia della quale mi sentivo, mio malgrado, responsabile.


Roberto Cristaudo
NP dicembre 2022

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