Alza lo sguardo

Pubblicato il 04-07-2022

di Susanna Tamaro

Nel secolo scorso abbiamo smesso di pensare che educare le nuove generazioni fosse una cosa importante.
Abbeverati alle ideologie dominanti – secondo le quali l’essere umano è naturalmente buono e creativo, ed è la società a corromperlo e a trasformarlo in un mostro – abbiamo cominciato a pensare al bambino come a un essere perfetto, un miracolo della natura davanti al quale non restava altro da fare che prostrarsi in adorazione.

Il culto quasi idolatrico dell’infanzia nasce proprio in quegli anni. Il bambino non ha bisogno della violenza abusante delle nostre indicazioni per crescere, siamo noi piuttosto a dover imparare da lui, a fare di lui il nostro maestro. Sarà la sua forza istintiva a consentirgli di crescere nel migliore dei modi. In questo c’è qualcosa di vero. I bambini crescono comunque. È una legge di natura. In qualsiasi condizione nasca, l’essere umano tende con tutte le sue forze a mantenersi in vita e dunque a crescere. Ma come cresce? Pensando ai bambini di oggi, ai piccoli re con un’inutile corona di cartone in testa, prepotenti e disperati per via dell’indifferenza che li circonda, la visione che mi viene in mente è quella di una prateria.

L’erba selvatica, infatti, non ha bisogno di alcuna cura per spuntare, segue il ritmo delle stagioni. Più o meno luce, più o meno acqua e, in base a queste, modera il suo sviluppo che sarà limitato e uniforme.
Tutti i fili d’erba si assomigliano, tutti appassiscono e scompaiono all’apparire dei primi rigori invernali per rinascere poi a primavera, confermando così la regolare ciclicità del loro esistere.

Dunque i bambini-erba crescono, ma sotto il segno dell’uniformità e del limite. Se vogliamo invece far crescere un albero, magari un albero da frutta, possiamo lasciarlo solo nel suo sviluppo o dobbiamo costantemente, e con sapienza, occuparci di lui, lavorando a fondo il terreno perché le radici abbiano modo di respirare ed espandersi senza ostacoli, legandolo a un sostegno per mantenere il tronco dritto, proteggendo con una rete la giovane corteccia dai denti delle lepri e dei caprioli, dandogli da bere quando ha sete, nutrendolo con il concime quando ha fame, potandolo nel momento giusto, coprendolo quando il freddo si fa intenso?

Sì, educare e coltivare sono due attività strettamente connesse. In entrambi i casi ci si pone in un atteggiamento di attenzione e di cura, con la speranza un giorno di poter godere dei frutti del nostro lavoro. Se coltivo un albicocco, infatti, lo faccio nella speranza di raccogliere un giorno delle albicocche; se cresco un bambino spero un giorno di vedere sbocciare in lui le migliori attitudini dell’essere umano. Certo, si può anche piantare un albicocco e abbandonarlo alle cure di madre natura, ma molto difficilmente un giorno si riuscirà a mangiare i suoi frutti.
A questo punto dobbiamo chiederci quale si stato il momento in cui ci si è arresi al criterio antieducativo della circolarità nella scuola. Credo che il primo e più fondamentale cedimento sia avvenuto negli anni Ottanta del secolo scorso, con la riforma che modificò in profondità l’assetto delle scuole elementari, trasformate, in ossequio all’anglofilia provinciale, in “primarie”. È stata quella riforma a cancellare la maestra unica, avviando il processo di “liceizzazione” della scuola elementare, pardon, primaria.

Basta con la maestra-mamma, venne detto allora, è ora di modernizzarsi, i tanti saperi richiedono una varietà di insegnanti e così, oltre a stare al passo con i tempi, si evita di correre il rischio che il bambino incappi in un’insegnante non adatta alle sue esigenze, in grado di creargli magari qualche trauma. E poi basta con queste maestre capaci di spiegare solo le cose elementari – le somme delle ciliegie, le divisioni di una torta, i sette re di Roma. Per insegnare bisogna avere almeno la dignità di una laurea. Se poi c’è qualche master di specializzazione dal nome astrusamente altisonante, ancora meglio.

Il fatto che gli italiani abbiano lasciato l’analfabetismo alle spalle proprio grazie alle maestre forgiate da quella scuola non ha sfiorato nessuna delle razionalissime menti dell’epoca. Così ora ci troviamo ad avere ragazzi che arrivano all’università, per esempio, senza conoscere e saper usare le basi della propria madrelingua.
E questa non è l’eccezione, ma la regola. Diventeranno medici, avvocati, archeologi, insegnanti, senza essere in grado di scrivere in un italiano corretto e facendo degli errori che un tempo chi avesse frequentato anche solo la quinta elementare non si sarebbe mai sognato di fare. Nella scuola elementare si è ormai abbandonato l’insegnamento degli “elementi” e quest’abbandono non è certo colpa degli insegnanti, che sono per lo più molto appassionati del loro lavoro, ma delle idee che stanno a monte. Idee che hanno tutte alla base il concetto di destrutturazione del reale.

La chiave di lettura che viene offerta è quella della complessità. In una simile visione non è contemplata l’idea che esista una base comune a tutti i saperi, e che questa base sia necessaria per poter costruire poi qualcosa che duri nel tempo. Tutto è – e deve essere – fluttuante, tutto è – e deve essere – relativo, perché nessuno di noi può avere la certezza, né tanto meno l’arroganza, di credere che esista un’unica versione del reale.
Rendere perversamente e inutilmente complicato ciò che è semplice è figlio di questa visione ideologica.

La nostra scuola crea una grande confusione di concetti che cerca poi di risolvere grazie all’abbondanza di crocette – o la va o la spacca – e con la compilazione di fotocopie i cui puntini sospesi indicano la direzione da intraprendere. Usare la mano per tracciare una crocetta o completare i puntini delle parole mancanti è molto diverso che usarla per scrivere un pensiero uscito dalla propria testa.
Così come non è la stessa cosa leggere un’informazione sul tablet e sullo smartphone o sottolinearla sul libro, magari scrivendoci qualche nota accanto.
Non è questione di rimpiangere il bel tempo andato ma di conoscere i più avanzati studi neurologici. Il rapporto occhio-mano-cervello è estremamente complesso. Semplificarlo – o peggio ancora annullarlo – vuol dire lasciare in sonno migliaia e migliaia di connessioni neuronali. E dal sonno delle connessioni al sonno della ragione il passo è piuttosto breve. È questo il fine della scuola?

* Susanna Tamaro, Alzare lo sguardo. Il diritto di crescere, il dovere di educare, Solferino, 2019, pp. 42-50.


*Susanna Tamaro
NP marzo 2022

 

Questo sito utilizza i cookies. Continuando la navigazione acconsenti al loro impiego. Clicca qui per maggiori dettagli

Ok